Dopo 24 anni, a Genova le ferite del G8 bruciano ancora. E proprio qui, ai Giardini Luzzati, i 99 Posse hanno voluto esserci per ricordare quei giorni, per non dimenticare e per trasmettere alle nuove generazioni messaggi forti, duri, e chiari. E le nuove, ma anche le meno nuove, generazioni hanno risposto, in un trionfale concerto sold out e partecipato non soltanto con il corpo, ma anche con le coscienze.
È proprio Marco Messina a raccontare che cosa rappresenta oggi essere, ancora, portatori di pensieri e di valori ben chiari, distanti dalle logiche che sempre più sembrano muovere il mondo. Un racconto, diretto e senza filtri, da parte di uno dei protagonisti della scena alternativa italiana, ancora profondamente convinto che la possibilità di cambiare il mondo nasca dall’empatia, dalla cultura e dal coraggio di non dimenticare.
Torni a Genova dopo tanti anni: che cosa rappresenta per te essere di nuovo qui, soprattutto sapendo cosa ha significato questa città durante e dopo il G8?
A prescindere, e davvero non lo dico per piaggeria, Genova e Torino sono le uniche città del nord dove potrei andare a vivere. Ma qui mi sento proprio a casa. Una delle cose che amo di più di Genova sono i suoi vicoli, i panni stesi tra le finestre; sono dettagli che per me significano vita, casa, umanità. Ricordo ancora quanto mi diede fastidio, ai tempi del G8, quel divieto di stendere i panni in città “per il decoro”. Mi sembrava quasi una legge contro la gioia di vivere, contro l’autenticità. I panni stesi per me sono il simbolo di una casa viva, di un pianeta abitato da un’umanità che si mostra per quello che è, senza filtri.
Oggi, mentre passeggiavo per Genova, è passata una ambulanza e ho avuto un sussulto, mi è venuto automatico: Genova e sirene fanno scattare immediatamente la memoria, perché sono suoni che rimangono impressi dentro.
Il G8… Per noi quello rappresentava un sogno: sognavamo di costruire un mondo migliore, vedevamo la possibilità di creare un pianeta nuovo. E invece quel sogno fu distrutto, a forza di manganellate, calci, sangue… Veramente una cosa orribile. Dal punto di vista di chi ha voluto quella repressione, probabilmente ne sono venuti fuori pure soddisfatti, perché hanno spento un movimento.
Però quel gesto ha prodotto anche altro: ha creato, secondo me, nelle nostre generazioni e nelle successive, un totale distacco dalle istituzioni. Oggi ci si chiede come mai i ragazzi non sono interessati alla politica, perché cala la partecipazione, perché tanta gente non va più a votare… Ecco, io credo che Genova sia stata il primo tassello di questa disaffezione, l’inizio di una rottura tra le persone e le istituzioni in cui dovrebbero riconoscersi.
Eppure, sia quando suoniamo sia nel mio lavoro di insegnante (insegno all’Accademia delle Belle Arti) vedo che i ragazzi e le ragazze stanno riprendendo a informarsi, a porsi domande su quello che succede nel mondo, e cominciano di nuovo a sentire il bisogno di impegnarsi per qualcosa. Dopo un decennio di edonismo reaganiano senza nemmeno più l’edonismo che c’era negli anni Ottanta, torno a vedere la voglia di prendere posizione, di capire: almeno, questa è la mia impressione.
Ieri sera c’è stata una serata rap al Porto Antico con tanti giovani della scena locale: quasi tutti, molti dei quali non erano neppure nati ai tempi del G8, hanno voluto ricordare quei giorni. Non succedeva da tempo: è cambiato qualcosa?
Sì, è una cosa che mi colpisce molto perché fino a poco tempo fa, lo dico senza giudicare, ma da molte esibizioni rap avresti sentito solo “ho fatto i soldi”, “voglio fare i soldi”, “mi porto a letto le ragazze più belle”. Adesso sentire i giovani parlare del G8, ricordare quei giorni vuol dire che la memoria non si perde, e che i nuovi movimenti cominciano a riappropriarsi di temi collettivi, non soltanto di individualismo.
Vi spaventa, come artisti, la deriva che la politica europea e italiana ha preso in questi anni?
La deriva non riguarda soltanto l’Italia ma è internazionale, globale. La destra, in modo paradossale, almeno mantiene un rapporto con le proprie radici: quando vanno al governo fanno quello che devono fare, però dichiarano sempre con chiarezza le proprie posizioni, anche commemorando figure del proprio passato. La sinistra invece sembra aver perso il collegamento con i propri valori, la propria storia. Facci caso: vediamo un Ignazio La Russa che va alle commemorazioni di ragazzi uccisi negli anni di Piombo, ma sarebbe impensabile vedere qualcuno di sinistra commemorare qualcuno che sta dall’altra parte. Questo crea una distanza, qualcosa che divide.
Poi, se penso alla politica internazionale, ci trovo una coerenza a targhe alterne: siamo giustamente severi contro la Russia, ma non ho mai capito perché non applichiamo lo stesso metro di giudizio a Israele, che sta facendo qualcosa di ancora più estremo a Gaza. Non voglio essere frainteso: io stesso contestavo Putin ben prima dell’invasione dell’Ucraina, già nel 2001 a Genova sapevamo che Putin era un problema. Ma perché due pesi e due misure?
Quello che succede a Gaza è un massacro, è sotto gli occhi di tutti anche se spesso i media raccontano tutt’altro. Mi dispiace vedere che quando sollevi queste questioni, la risposta automatica sia accusarti di antisemitismo, quando invece ciò che muove è solo un senso di giustizia.
La vera questione è che i potenti ragionano solo per interessi. Gli ucraini, per dire, hanno la “fortuna” che i nostri interessi in questo momento coincidono con i loro, ma se non fosse così finirebbero dimenticati come i curdi, come i palestinesi, come tanti altri popoli. La disaffezione nasce anche da qui: il cittadino avverte che c’è poca coerenza, poca onestà di fondo. Mi piacerebbe che avessimo almeno l’onestà di dire: “Sosteniamo l’Ucraina perché ci conviene”. Sarebbe già qualcosa.
Ma poi nella vita quotidiana queste contraddizioni si sentono: pago la bolletta del gas più cara perché non lo prendo più dalla Russia – e magari invece lo compro da Israele, che sfrutta e rivende risorse prese ai palestinesi. Mi viene da dirlo: è una ruota che gira, ma non si capisce mai dove sia il giusto. E quando ti arriva la bolletta, un po’ ti arrabbi, ti senti preso in giro.
E la musica? Che ruolo può avere ancora oggi?
La musica e l’arte, più in generale, possono fare tantissimo. Per me la cultura crea l’immaginario collettivo, plasma le coscienze più di quanto ci rendiamo conto. Senza i poeti, senza gli artisti, senza la musica, il Sessantotto non sarebbe mai accaduto.
Anche chi bolla l’impegno dei giovani come “moda” sbaglia, non capisce: in verità, anche quando qualcosa passa per moda, c’è sotto un movimento collettivo, c’è l’intelligenza collettiva di cui parla anche il filosofo Pierre Lévy. Le idee circolano, si diffondono, ti plasmano e si trasformano nell’anima del tempo.
Io vivo ai Quartieri Spagnoli, a Napoli: fino a dieci anni fa nessuno ci voleva andare, ora li hanno scoperti anche i turisti. In un bar tenuto da due ragazzi che un tempo stavano sulla strada e ora gestiscono un locale, l’altro giorno sono entrati dei turisti con la bandiera israeliana. Loro, che forse non conoscono bene nemmeno la storia della propria città, mi hanno detto: “Noi persone che ammazzano i bambini non le vogliamo”.
Questa è empatia. Che uno si senta spinto dalla moda o da altro, poco importa: si chiama umanità. La musica, l’arte, possono ancora oggi essere veicolo di questa umanità e di questa spinta all’empatia.
Dopo trent’anni di 99 Posse, c’è qualcosa che secondo te è cambiato per sempre, o che non cambierà mai?
Sicuramente, siamo cambiati nel fisico! (ride) Ora, prima di suonare, non possiamo più fumare come un tempo… e io non ho più i dread. Ma, a parte questo, credo che dentro siamo ancora quelli di sempre. Il linguaggio è cambiato, i tempi sono cambiati, ma l’approccio alla vita, quello no.
Come insegnante nell’Accademia delle Belle Arti di Palermo, quest’anno mi sono permesso di dire al direttore: “Perché non organizziamo il Pride dell’Accademia?” E l’abbiamo fatto! Anche se sono etero, ho sempre partecipato, anche perché la mia intelligenza collettiva, la coscienza con cui sono cresciuto, mi ha insegnato che se permetto che qualcuno subisca un’ingiustizia, domani potrei subirla io. Non è nemmeno un gesto di altruismo, ma di egoismo intelligente.
Ti racconto un aneddoto: da bambino ero un po’ atipico. Non mi piaceva giocare a pallone, stavo spesso a casa con le amichette del parco e un giorno ho voluto imparare a lavorare a maglia. Dopo tanti sforzi, mi feci una sciarpa. Orgogliosissimo, andai a scuola: i miei compagni subito “Bella questa sciarpa, te l’ha fatta la mamma?” e io, ingenuamente: “No, l’ho fatta io”. Parti subito il coro di insulti: “ricchione, ricchione”…
Quella cosa mi traumatizzò, smisi di lavorare a maglia, mi vergognai a lungo. Cresciuto, ho capito che quell’episodio mi aveva segnato e allora combattere le discriminazioni, l’omofobia, mi è venuto naturale, perché ho provato sulla mia pelle cosa significa essere colpiti soltanto per il fatto di essere diversi… e lo dico da etero, figuriamoci chi lo è davvero. Per questo dico che forse non siamo cambiati: ci siamo evoluti, il mondo intorno a noi è cambiato, ma noi no.
C’è un personaggio oggi, in Italia o altrove, che ti dà speranza?
Quando sento parlare i miei studenti, le mie studentesse, sento che c’è ancora speranza. Forse è strano da dire, ma oggi sono loro a darmi fiducia. Per anni sono stato pessimista, ma ultimamente sento che sta tornando un l’insofferenza, non la rabbia violenta che avevamo noi, ma una reazione al mondo che trovano davanti.
Se ripenso a quando ho iniziato a insegnare, la cosa che più mi colpiva era che loro non sognavano. Quando ero studente io, tutti sognavano in grande: volevamo fare i musicisti, gli scrittori, gli intellettuali… Oggi i miei studenti di sound design al massimo sognano di diventare social media manager, o montatori per la tv.
Credo che sia anche colpa della nostra generazione: abbiamo lasciato loro un mondo peggiore, una società dove immaginare il futuro è diventato più difficile.
Quando mi dicono “i vostri brani sono ancora attuali”, io rispondo sempre: non è un nostro merito, è un demerito della società! Le problematiche sono rimaste, se non addirittura peggiorate. Però io spero, credo che nella loro insofferenza, nella voglia di reagire, ci sia la base per qualcosa di nuovo.
Fotografie di Daniele Modaffari



















