Con SHOCKINI, i Sordi trasformano la quotidianità più banale in un universo poetico e al tempo stesso straniante. L’album mescola ironia e malinconia, esperienze personali e simboli universali, creando uno spazio condiviso tra musicisti e ascoltatori. Ogni brano è un piccolo shock, un frammento di vita osservato da una distanza che ne rivela la stranezza e la bellezza.
In questa intervista, i Sordi raccontano come nascono le idee, come si costruisce la coerenza tra contrasti emotivi e come anche gli elementi più giocosi del disco possano trasformarsi in pilastri del concept complessivo.
Nel disco di debutto sembra che la quotidianità più banale venga trasformata in qualcosa di poetico e strano allo stesso tempo. C’è qualche episodio personale o assurdo che ha ispirato questa prospettiva?
Tutti i pezzi partono da esperienze personali, che però non sono trasposte paro paro ma usate come punti di partenza per arrivare al “simbolo” dietro ogni esperienza e guardarlo per quello che significa e comporta. Il fatto è che, vista da una certa distanza, la quotidianità del nostro oggi più banale avrà forse una certa poeticità, ma sicuramente è strana e assurda.
Il disco gioca molto con contrasti di tono: ironia e malinconia convivono fianco a fianco. Avete mai temuto che questo mix potesse risultare “confuso” e come avete deciso di tenerlo coerente?
La coerenza sta proprio nel dare sempre la possibilità a chi ascolta di scegliere. SHOCKINI può essere un viaggio divertente o un viaggio molto triste o entrambe le cose. Può essere un po’ straniante all’inizio, ma una volta che ci si rende conto che si ha la libertà di poterlo ascoltare su più livelli forse le cose si fanno un po’ più chiare.
Se doveste descrivere il concept dell’album usando una sola immagine o un oggetto, quale sarebbe e perché?
La testa da dentro, con le pareti completamente ricoperte di schermi e megafoni. Ciascuno di questi manda immagini e suoni completamente indipendenti l’uno dall’altro. Una macchina caotica e perpetua. Al centro qualcuno osserva. Rarissimamente, questi ha l’impressione della separazione tra sé e la macchina che egli stesso è.
L’album dà l’impressione di essere uno spazio condiviso tra voi e l’ascoltatore. Quanto avete pensato all’“esperienza dell’ascoltatore” durante la realizzazione del disco?
Ci abbiamo pensato. Volevamo non essere espliciti ma essere sicuri che il nostro messaggio potesse arrivare. Allo stesso tempo l’ascoltatore, se interessato, per andare in profondità dovrà fare uno sforzo. Da parte nostra è essenziale. Siamo convinti che senza un lavoro attivo si rimanga sempre in superficie. Siamo felici se chi ascolta SHOCKINI decide di fare questo sforzo. Detto questo, la musica resta accessibile anche a un livello meno “impegnato”.
Guardando al disco a distanza di tempo, c’è qualcosa che avete inserito quasi per gioco o curiosità che invece ha finito per diventare un elemento centrale del concept?
“Uomo che corre” è nata da un gesto completamente intuitivo. Le parole cantate all’inizio e alla fine sono state cantate “a caso” nell’agosto del 2022 (quindi in tempi non sospetti) durante una sessione di improvvisazione. Quella stessa registrazione è stata trasposta e integrata nella versione che si sente oggi in SHOCKINI. Eppure, “Uomo che corre” è una sorta di manifesto della condizione di cui si canta per tutto il disco.

