Silent Carnival, cioè Marco Giambrone, ha appena pubblicato un disco omonimo di grande interesse, che abbiamo avuto il piacere di recensire qui. Pittore e fotografo oltre che musicista, Giambrone ha collaborato Marlowe e Nazarin: ecco la nostra intervista con lui.
Questo è il tuo primo progetto da solista: puoi raccontare qualcosa della tua storia fin qui?
Ho iniziato a suonare relativamente tardi. Prima di allora ero più interessato alle arti figurative. La prima esperienza importante è stata l’ingresso nei Marlowe nel 2005, da lì sono venuti due dischi, tante date in giro per l’Italia, esperienze e collaborazioni con tanti artisti che stimiamo molto, uno su tutti Hugo Race.
Successivamente nel 2013 ho collaborato al primo disco di Nazarin (progetto solista di Salvo Ladduca, voce/chitarra nei Marlowe). Nel frattempo ho iniziato a scrivere i pezzi che poi sarebbero finiti nel primo album Silent Carnival, ed ora eccomi qua.
Hai scelto una casa di campagna nei dintorni di Racalmuto per registrare l’album: perché questa scelta? In che modo ha influito sull’atmosfera del disco?
L’idea era quella di registrare il disco al di fuori di un canonico studio di registrazione. Carlo Natoli allora mi ha propoposto di montare il suo studio mobile in una casa che potesse avere le giuste caratteristiche.
Con un po’ di fortuna abbiamo trovato questa bellissima casa di amici nelle capagne di Racalmuto dove abbiamo allestito la sala riprese nel grande salone e la regia in una delle stanze da letto.
Credo che certi ambienti “non convenzionali” diano più personalità e sfumature al suono e questo ha contribuito sicuramente al risultato finale.
Il fatto che fosse un posto lontano da tutto e immerso nell’assoluto silenzio ha contribuito a rendere tutto molto più intimo.
Al tuo disco hanno collaborato svariati musicisti: come hai scelto gli ospiti per ogni brano?
Sin dal principio, nel progetto Silent Carnival c’è stato spazio per il contributo di tanti amici/musicisti come per esempio Caterina Fede e Alfonso De Marco che stabilmente collaborano con me in quest’avventura e poi nel corso della pre-produzione del disco è nata l’esigenza di arricchire il suono con altri interventi.
Immaginavo l’effetto che avrebbe fatto l’ingresso di uno strumento in un brano, dove l’avrebbe portato. Quello che volevo evitare assolutamente era di inserire cose in più del necessario e in questo Carlo mi ha dato sicuramente preziosi consigli.
Sempre a proposito di ospiti, hai utilizzato i suoni di strumenti non del tutto consueti per il rock, come la balalaika, il banjo, il dulcimer, archi come viola e violoncello… Perché la scelta di utilizzare gli strumenti “veri” e non sintetizzati? L’iniziativa di utilizzare questi strumenti parte da te o sono stati gli strumentisti a proporteli?
In realtà non sono un purista a tutti i costi.. Mi è capitato in passato di usare dei virtual instruments e credo che lo farò ancora. In questo caso invece ho avuto la fortuna di avere degli strumenti “veri” e soprattutto suonati da musicisti che stimo profondamente..
E’ stato il caso di John Eichenseer che ho conosciuto durante un tour con Carla Bozulich oppure di Andrea Serrapiglio, che non conoscevo personalmente ma che da subito è entrato nel mood di questo lavoro.
Il disco non ha un genere ben definito, c’è dentro tutto quello che sono adesso e ci sono anche questi strumenti che possono sembrare inusuali ma che in quel momento erano estremamente necessari.
