Villa Durazzo Bombrini di Cornigliano è un’elegante residenza genovese del Settecento, circondata da un bellissimo parco, dove trova spazio, con molte scuse per il gioco di parole, un bellissimo palco: quello del Lilith Festival, la manifestazione dedicata alla Musica d’Autrice e nata ormai 14 anni fa.
Un’istituzione rivoluzionaria, se ci piacciono gli ossimori, perché è sicuramente il primo, più stabile e più interessante tentativo di dare spazio e voce a chi spazio e voce spesso non ha, cioè a progetti d’autrice, spesso compressi e schiacciati fra troppi nomi maschili nei cartelloni dei festival principali. Oggi l’emergenza sta piano piano rientrando, ma la funzione del Lilith rimane esattamente la stessa e continua in modo molto efficace a gettare una luce sulle moltissime proposte che non prevedano un uomo al comando.
L’edizione 2025 si è aperta ieri sera con un comune denominatore, quello del rock, anche se declinato con sfumature decisamente diverse: ad alternarsi sul palco sono state La Noce, Elli De Mon e Angela Baraldi, presentate da Andrea Podestà, giornalista e studioso della canzone d’autore, e da Lisa Galantini, attrice, regista, direttora del CFA di Luca Bizzarri.
Prima a salire sul palco e a portare subito un’ondata di energia è La Noce, cantautrice proposta dal collettivo Dinamica Cantautrici in Movimento, che ha pubblicato da poco il primo disco Libera. Nuotare è il primo brano, che apre in maniera particolarmente percussiva. Minuta, in scena con la sola chitarra, Marta non sembra aver bisogno di particolari ulteriori supporti per dominare il palco. A parte quello della poesia: il suo disco ospita infatti i componimenti di Cecilia Lavatore, e grazie a Lisa Galantini anche qui se ne ha un’interpretazione molto partecipata e vivida.
Si prosegue poi con Libera, la title track, a cui fa seguito una canzone d’amore (così la annuncia l’autrice) come Lasciarsi andare. Si rimane sul morbido anche con Parole complicate, che parla di un “silenzio che sa di sale” e suggerisce atmosfere marine, e l’allusione è particolarmente in sintonia con i gabbiani che vorticano sopra le nostre teste.
La cantautrice originaria della provincia di Latina chiude con Vai via, storia di violenza domestica, introdotta con poche parole ma con tantissima intensità. Il pezzo è arrabbiato ma avvolto di blues, per raccontare una storia, come sappiamo, purtroppo ancora molto comune.
Elli De Mon e le storie di Sant’Orso
L’atmosfera cambia quando sale sul palco Elli de Mon, con il suo trio a forte impronta blues, ma anche con le storie della sua terra d’origine. Elli inizia a raccontare la storia di Sant’Orso, fondatore mitologico del borgo del Vicentino in cui vive. Le storie sono quelle contenute in Raìse (“radice”) il nuovo disco, nonché il primo in cui è passata dall’inglese al dialetto, pur mantenendo un’impronta americana molto forte nel sound che esprime.
Il disco è eseguito, quasi inevitabilmente, nella sua completezza e secondo la scansione cronologica della storia di Orso, a partire dalla title track. Alla ricerca delle radici, il trio di Elli, con chitarra e batteria, mentre lei alterna contrabbasso, chitarra e anche il sitar, ha risonanze molto profonde, optando nella prima parte verso un blues ruvido e molto alternativo. La seconda parte del set invece suona in prevalenza più rock e anche più aggressiva, accompagnando il climax delle vicende del protagonista, un po’ Edipo e un po’ viandante alla ricerca di risposte.
L’impronta della musica ha un effetto straniante rispetto alle storie che Elli racconta negli intermezzi. Mi colpisce soprattutto El me moro, canzone popolare veneta, qui resa con il dramma necessario alle percosse che gli uomini riservavano alle loro donne, mentre la versione originale era cantata proprio dalle donne venete vittime di violenza, ridendo, come se le botte fossero qualcosa di cui fare poco conto.
Esplosioni rabbiose e particolarmente rock investono la platea. I pezzi, spesso risultato di mescolanze con melodie lontane, si plasmano sul palco per cercare messaggi universali che superano spazio e tempo.
Angela Baraldi e il rock che non morirà mai
Angela Baraldi rappresenta il main event della serata e la sua performance è assolutamente all’altezza delle attese e della fama, conquistata lungo gli anni percorrendo tutti gli scalini della gavetta. E come tutti i talenti individuati a suo tempo da Lucio Dalla, continua a sbocciare e a durare a lungo.
La cantautrice bolognese regala subito un grande classico come A piedi nudi (“la canzone più vecchia della serata”): con i suoi stivali gialli Angela inizia a ballare sul palco, intonando il brano che le valse la vittoria del premio della critica in un ormai lontano Sanremo 1993.
Ma lontana non è la grinta della Baraldi, che alza presto la voce e i toni. Tornano sempre è il secondo brano della scaletta, mentre tocca poi a Uomouovo e alle sue assenze. Accompagnata da un trio rock di stampo classico ma molto ruvido, l’artista pesca poi dall’ultimo album, pubblicato nel gennaio scorso, cioè 3021: arrivano in sequenza due canzoni cardine del disco, cioè la title track 3021 e poi Cosmonauti, dedicata “a un amico di tutti, ma era proprio amico mio”, cioè Lucio Dalla, per l’appunto.
Tutti a casa invece è dedicata a Federico Aldrovandi, e a tutti coloro che finiscono vittime della violenza di chi dovrebbe proteggere e invece colpisce. Tempo e forse anche necessità di una ballad: ed ecco infatti Bellezza dov’è, ricca di intensità, con la tastiera a fornire qualche tocco melodico in più.
La tranquillità svanisce presto con una minacciosa La preghiera della sera. Angela racconta molto delle canzoni che va a cantare, mentre il pubblico, prima seduto, si avvicina al palco per cantare e applaudire un po’ più da vicino. Cuore elettrico parte da un’ispirazione di Edgar Allan Poe, e nell’eseguirla la Baraldi si mette a braccia incrociate, forse anche per evocare le salme spesso protagoniste dei racconti dello scrittore americano.
Tocca poi a Viva, con la sua “Cella stellata”, che prende qualche piega psichedelica. Si torna parzialmente a Poe con Corvi, mentre Saturno è dedicata a una madre con qualche pretesa. E dopo aver negoziato un po’ sull’opportunità di uscire facendo finta che sia tutto finito quando tutti sanno che ci saranno dei bis, ecco Sono felice che fa muovere letteralmente il culo, anche all’autrice del pezzo.
Mi vuoi bene o no è presentata come un proto rap, dalla riuscita ottima a prescindere da qualche incertezza su un testo scritto qualche tempo fa. Quindi arriva Josephine, dedicata alla star degli anni Venti Josephine Baker e alla sua vita difficile ma poi di successo. La chiusura del live arriva rimembrando un’altra avventura importante, quella accanto a Massimo Zamboni: ci sta benissimo la cover di Io sto bene dei CCCP, a ricordare che né il rock né il punk vogliono e possono morire veramente.
Stasera si prosegue con gli eventi del Lilith Festival: la serata genovese prevede infatti un altro triplice appuntamento con Mare, Giulia Mei e Beatrice Antolini.
Foto di Daniele Modaffari





























































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