E’ appena uscito Il rito della città, album d’esordio di Francesco Pelosi. Il disco è composto di undici canzoni “antiche” per scelta e per sostanza, radicate sia nelle sonorità che stanno tra Medioevo e Barocco, sia nella crescita della città nel suo tessuto storico.
Così spiega il comunicato stampa di accompagnamento: “L’album ha come protagonista la città, luogo di partenza di un’indagine sentimentale e sonora che, più che suggerita, gli è stata costretta per diritto di nascita. Leonard Cohen cantava di non avere scelta, poiché nato con una “golden voice”. Più o meno allo stesso modo, nascere in una città di provincia, stretto fra due fabbriche e inondato di mitologie a basso prezzo (ma costosissime per l’anima), dall’osteria alla resistenza e dal cattolicesimo al mercato globale, non lascia scampo. Bisogna darsi da fare per raccogliere ciò che di vero esiste ancora in quel piccolo mondo nuovo che ci ha accolti. Si scopre così, non senza amarezza o rassegnazione, che esistono spiriti affini, che alcune mitologie sono ancora vive e concrete e che il viaggio, per quanto difficoltoso a arduo, esiste, si manifesta”.
Francesco Pelosi traccia per traccia
Si parte dal minimalismo notturno di Sonno, sorta di cupa ninna nanna cantata per chi dorme già, “figlia” di un testo greco antico e di “Gerontocrazia” degli Area. Un che di ballata medievale echeggia in O Morte, scelta come singolo con voce, chitarra, pizzichi di De André, Villon, Cecco Angiolieri (visto dalla parte cupa).
I riferimenti storici si fanno anche più diretti e concreti con 1260, ballata di piazza e di battaglia, con sonorità acustiche antiche e un’ambientazione fra gli eretici medievali. Più animata Storia di un fiore, che utilizza il sostegno degli archi e perfino di un synth per una celebrazione danzata con qualche scampolo di leggerezza.
Nico si riveste di un manto oscuro e funebre, facendo riferimento esplicito e dedicato alla cantante warholiana e velvettiana. Ecco poi la title track Il rito della città, che mette in luce un cortocircuito fra sonorità di carattere “antico” come composizione e cantato (ma con uso moderato di elettronica) e panorami cittadini contemporanei.
Nordest mescola un po’ di dialetto a un impasto che suona folk e celtico, ma con una fisarmonica molto mitteleuropea. Ci si sposta ancora più a est con Canzone dei poeti russi, minimalista nei suoni e alla ricerca di un’intensità totalizzante. Segue The auld triangle, classico irlandese interpretato da decine di artisti, qui resa in duetto e con grande sensibilità.
Si parte da molto lontano con la seguente Le belle canzoni, che mette veli strumentali sottili crescendo piano e con lentezza. Il cantato entra ad aggiungere pathos e dramma, con un testo sofferto e intenso. Un po’ di ironia entra con No pasaràn, ballata dal sapore popolare e dialettale per niente barricadera a dispetto del titolo.
Posto che il disco suona volutamente cupo e antico, è molto apprezzabile sia la capacità di ricerca sia la qualità di scrittura e di esecuzione di Francesco Pelosi. Da notare soprattuto la capacità di ballare su equilibri fragili, di muoversi tra le ombre del passato e le luci del presente senza mostrare mai flessioni o strappi.
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