Empty suitcase è il secondo disco di Homelette, seguito di Morning Hollows pubblicato nel 2015. L’evoluzione del progetto nato come alt-folk si presenta con sei tracce che trovano già nel titolo una dichiarazione di intenti. Una valigia vuota prima di un viaggio, un viaggio tra elementi e spazi lontanissimi.
Tre anni dopo “Morning Hollows”, ecco “Empty Suitcase”: che cosa è cambiato in voi e nella vostra musica dai tempi dell’esordio?
Tre anni detti così sembrano poco, in realtà di cose ne son successe. Non essendo musicisti di professione, a volte siamo stati costretti a fare in modo che la serietà della nostra routine e dei nostri impegni “formali” prendesse il sopravvento. Dedicarci agli studi, agli esami, università e quant’altro, come tutti.
A ciò bisogna aggiungere che esattamente dopo l’uscita di Mornin’ Hollows, Danilo si è trasferito a Roma per proseguire i suoi studi. Empty Suitcase è un disco di sei tracce che nascono quasi come moto di repulsione nei confronti della quotidianità. Un colpo di coda insomma (per noi) e dal punto di vista prettamente musicale, una sintesi perfetta di quelli che sono stati i nostri ascolti degli ultimi tempi.
Che cosa rappresenta la vostra “valigia vuota”?
Quando abbiamo pensato a temi come la rinascita o l’evasione verso qualcosa di ignoto, su cui si basa questo secondo disco, immediatamente ci è venuta in mente l’immagine di una valigia, pensandola come un piccolo armadio in cui mettere lo stretto necessario per la sopravvivenza ma soprattutto tutti quegli elementi più intimi, da tenere segreti, del nostro io. Il problema che abbiamo individuato però è stato questo: cosa metti all’interno della valigia se la partenza non è stata programmata? O meglio, cosa è realmente essenziale?
Abbiamo spolpato questo tema in tutti i modi possibili. E la conclusione a cui siamo giunti noi è “assolutamente nulla”. Il vuoto della valigia, per quanto possa destabilizzare, può essere sempre riempito. La difficoltà è esattamente decidere di prendere quella valigia, vuota o piena che sia, e iniziare a lasciarsi metri dietro le spalle. E’ una allegoria delle nostre vite, tutto il disco è basato sulle nostre storie.
Di che cosa raccontano i vostri testi? C’è un filo conduttore?
Per quanto riguarda la scrittura, forse rappresenta l’unico reale filo conduttore che collega Empty Suitcase al nostro primo ep. Ci piace scrivere in maniera molto semplice ed essenziale. Parliamo sempre di amore, in tutte le sue forme, cercando di non essere poi banali. Tutti hanno delle persone o delle immagini che utilizzano come fonte di ispirazione. Noi abbiamo scelto di giocare con la fantasia.
Per noi scrivere un testo è sempre un momento di divertimento assoluto: ci sediamo, ci giriamo una sigaretta, pausa cibo essenziale e iniziamo a fantasticare a partire da luogo, tempo, spazio sino a riportare riflessioni sui massimi sistemi in una sfera più personale, meno contorta. Poche parole ma che siano quelle giuste. Sia nelle canzoni d’amore come SongforU che in quelle un po’ più seriose come Space.
A proposito: come nasce “Space”, che avete scelto anche come singolo e video?
Space è semplicemente la traccia più rappresentativa del disco. Abbiamo scelto di farne un singolo perché, non so come spiegarlo, ma c’è stato un feeling immediato, diverso dagli altri pezzi. Poi abbiamo incontrato Ian Algie, protagonista del videoclip girato da Nicolò Vallarelli e Michelangelo Volpe al MAT Laboratorio Urbano di Terlizzi, la nostra seconda casa, e tutto è stato molto più chiaro. Abbiamo parlato a lungo di tutti i pensieri che ruotavano attorno a Empty Suitcase, ci siamo confidati a lungo ed è stato semplicemente meraviglioso vedere come Ian sapesse comunicare esattamente quello che era nelle nostre teste, esclusivamente con la mimica del viso.
Abbiamo riscoperto la potenza dello sguardo, a cui forse non diamo mai il giusto peso. Nel video si vede un uomo che cerca perennemente se stesso e non si trova mai, che si sente fuori luogo ovunque sia, che cerca comprensione nello sguardo che ha di fronte ma non la trova. Forse, dal punto di vista tematico, è anche il pezzo più tragico e realista. La presa di coscienza del fatto che tutti siamo solo una piccola unità di un mondo infinitamente grande per noi. Troppo, da sentirci in catene.
Potendo scegliere (senza limiti) quale musicista scegliereste per collaborare su una traccia o un album intero?
Nessun dubbio e nessuna ulteriore spiegazione. Bon Iver. Ma che disco ha fatto???
Homelette traccia per traccia
Il disco si apre con Ghost, pezzo che apre piano, con gentilezza assoluta, e che poi acquista spazio e ritmo, rimanendo in ambiti sognanti e vintage.
Il pianoforte di A Thousand Winters disegna curve morbide, infilandosi negli interstizi sonori e omaggiando in modo anche aperto la grande tradizione della canzone pop anglosassone.
Space si diffonde liquida, secondo ondate vaste e diffuse. Submarine è un intermezzo strumentale, al solito molto dreamy.
Sentimenti che non si depositano neanche in Streetlights, all’inizio più canticchiata che cantata, poi immersa nell’ovattata atmosfera che ormai ben si conosce.
Si chiude con Song for U, all’inizio minimalista e poi in grado di diffondersi sia in larghezza sia in altezza, con un sottile e fitto lavoro di pianoforte.
Lavoro interessante quello degli Homelette, coerente in tutte le tracce e ricco di sensazioni positive.
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