Houstones: il secondo episodio di “People Making Music” in esclusiva su TRAKS!

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In esclusiva su TRAKS gli Houstones presentano il secondo episodio di People Making Music, il documentario che la band sta pubblicando un episodio alla volta per preparare all’uscita del nuovo lavoro Perimeter.

Il regista Davide Fois, già all’opera con Ministri e Ronin, ha seguito le registrazioni del disco Perimeter e ha realizzato uno spaccato del lavoro e della vita degli Houstones, seguendoli in studio ma anche nella quotidianità dei loro lavori “veri” e delle loro famiglie. Il documentario si intitola “People Making Music” ed è diviso in sei episodi, uno per ogni brano del nuovo album degli Houstones.

Abbiamo rivolto qualche domanda alla band per inquadrare meglio il discorso.

Il nuovo disco si chiama “Perimeter” e giusto per partire subito malissimo vi chiederei dentro quale perimetro si muove il disco e soprattutto perché avete deciso di chiamarlo così.

Perimeter è a tutti gli effetti un perimetro disegnato dall’omonimo brano Perimeter che attraversa tutto il disco dividendosi in quattro parti (come i lati di un perimetro appunto) che aprono, ritornano e chiudono l’album.

Alcune di queste parti sono molto delicate e quasi ambient, altre invece molto noise e più incazzate e che tuttavia si richiamano sonoramente tra loro, e sono: (some rope), (walk on your same land), (refrain my love) e (hands and knees). Perimeter come titolo poi richiama anche il testo del brano che parla di spazi relazionali e relazioni spaziali; insomma di tipe.

È interessante che così come un perimetro si traccia in 4 lati, cosÌ il brano si compone di quattro parti che sono anche le gambe che sostengono il disco. Il tutto è capitato per caso, non è un concept-album che francamente sono anche una rottura di maroni.

Nel comunicato di presentazione del disco si dice che “Perimeter” sta “Tra Guantanamo e Grace Jones”. Ce lo spiegate meglio?

È un po’ una cazzata, una frase a effetto che però traccia i due estremi dell’estetica visiva e musicale del disco. Per la copertina dell’album abbiamo realizzato una foto di un trio avvolto in un tessuto dorato e incorniciato da delle palme: un’estetica anni ’80 alla Grace Jones appunto, oro, palme e fondo nero.

Tuttavia il trio è anche incappucciato e soffocato dal tessuto. Sono inginocchiati e incappucciati in un modo che richiama le foto dei detenuti torturati nella base americana di Guantanamo e quindi parte un’immaginario collettivo (da Banksy ai RATM), legato alla rabbia e al riscatto sociale. Secondo noi è un bel cortocircuito. Poi tutto parte in realtà dal fatto che ci piaceva l’idea di usare le coperte termiche come oggetto principale dell’estetica del disco.

Trovo siano purtroppo parte di un’immaginario estremamente attuale che richiama al tema delle migrazioni e vengono quindi subito associate a una sensazione di precarietà, di tensione, un senso di allarme, pur essendo poi una copertina estremamente silenziosa. Da lì poi è nato tutto il resto. Sicuramente la svolta è stata la collaborazione col fotografo lettone Artur Strupka che ci ha aiutato si dall’inizio del percorso.

Come nasce l’idea del documentario?

È andata così: ho chiamato il mio caro amico regista Davide Fois per realizzare dei videoclip per il nuovo disco e lui ci fa: “Mah… io voglio fare un documentario su quelli che fanno musica nei ritagli di tempo della loro vita, quelli che non è il loro lavoro e in tutti i cazzi quotidiani riescono ancora a mettersi lì e a suonare”, “va beh, ok” ho risposto io.

Quindi Davide ci ha seguito al lavoro, a casa, in studio per sei episodi, uno per ogni brano del nostro nuovo disco. È un documentario-videoclip che introduce i brani, come dei trailer per ogni canzone, dove però i brani vengono anche raccontati da Fois attraverso alcune domande che mi ha posto davanti alla telecamera e durante le nostre attività quotidiane, musicali e non.

E’ stato complicato “spiegare” le vostre canzoni con l’ausilio di un mezzo come il documentario?

Questa domanda andrebbe fatta a Davide Fois che ha diretto il tutto, per noi si è trattato poi solo di suonare e di rispondere alle sue domande. Certamente il documentario registra la normale attività di una band sconosciuta alle prese con l’inspiegabile, immotivata, voglia di farsi tutti ‘sti sbattimenti. Credo fosse quello che interessava di più a Davide Fois, tuttavia quello che lui vede come eroico, io lo vedo come una necessità.

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