Si parte dal folk: una base molto “terrena” e genuina che però non impedisce alla musica di The Please di decollare verso destinazioni del tutto impreviste: questo in sintesi quello che ci si può attendere da Here, il terzo disco della band, che ti abbiamo proposto in forma di recensione+streaming qui. Per completare il discorso, ecco qualche domanda al gruppo.
Il terzo disco, di solito, è quello della maturità o quantomeno della conferma. Con quali premesse, idee e intenzioni vi siete avvicinati alla realizzazione di “Here”?
Non ci sono state premesse particolari, stavamo attraversando un momento di transizione come band e di dissidio e maturazione a livello personale. Poi a un certo punto sono sgorgate due, tre canzoni e abbiamo seguito la pista. Sono venute direi quasi spontaneamente.
Come se si fosse diradata la nebbia, avevo bene in mente di cosa dovessero parlare e cantare queste canzoni e cioè di “apertura”, di altruismo, di vita.
Certamente, sapere cosa vuoi dire aiuta ad andare al sodo di qualsiasi faccenda.
Vi aspettavate tutte le ottime reazioni al vostro lavoro, soprattutto quelle più recenti? Vi ha messo pressione nel fare il disco nuovo?
Da parte nostra cerchiamo sempre di fare e scrivere belle canzoni; se ci riusciamo o no lo sappiamo noi e chi ci ascolta. Ci entusiasma sapere che altre persone apprezzino quello facciamo e speriamo sempre di arrivare alla gente…poi noi puntiamo all’Oscar da un po’ ma ancora nulla, vediamo.
Al contrario di gran parte della musica, soprattutto indie, in giro oggi, il vostro disco suona molto sereno. Rispecchia il vostro modo di essere o in realtà siete sempre in lotta tranne quando vi esprimete in musica?
Bella osservazione. Quella che tu chiami serenità io personalmente la vedo come voglia di raccontare le emozioni di cui ti parlavo prima: una grande apertura, con la consapevolezza di volerla cantare. Poi, le canzoni e chi le scrive (senza distinzioni tra indie e main) affrontano una grande quantita’ di emozioni, stati d’animo, consapevolezze e inconsapevolezze: Scriverne non deve essere una questione di moda o maniera.
Come nasce “Counterfort”?
E’ una somma di esperienze: da alcuni spaesamenti ( veri, nella vasta campagna Polacca) alla ricerca di un contrafforte, qualcosa che regga. E’ forse il brano piu’ intimo e velato del disco ma e’ fondamentalmente una preghiera. Parla di trovare sempre un modo di cavarsela. E’ anche blues.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
E’ un disco con tre anime: Una “folk” con chitarre acustiche, piano, cori e ottoni, una “rock” ( chitarre elettriche e qualche distorione, basso e batteria) e una più “psichedelica” (synths, organi e ancora voci e ottoni). Detto questo è il disco più pop che abbiamo fatto o meglio, Diventerà pop se la gente lo farà suo.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Personalmente, al momento mi piacciono tantissimo i Labradors, punk rock genuinissimo con una vocalità unica. E poi Diego Deadman Potron. Mitico.


