L’intervista: Cronaca e Preghiera, affrontando i lati oscuri #TraKs

Nel convincente esordio omonimo appena uscito, i Cronaca e Preghiera hanno messo musica d’autore, ironia e dissacrazione, contenuti e una buona dose di blues, punk e altre idee (qui la recensione del disco). Ecco la nostra intervista.

Mi raccontate la storia della vostra band?

La band nasce da un’idea di Giuliano (voce / chitarre / synth) e Francesco (chitarre / synth). Ci conosciamo da 14 anni, abbiamo fatto progetti musicali insieme finché non ci siamo separati geograficamente per lavoro (Francesco a Milano, Giuliano a Firenze).

A un certo punto, fine 2012, abbiamo deciso di fare qualcosa di nuovo insieme, supportati dal fatto che le tecnologie moderne ci consentivano di eseguire l’80% del lavoro a distanza, scambiandoci file via Dropbox.

Con le prime canzoni abbiamo capito subito dove andare a parare: raccontare noi stessi immersi nei sobborghi di Milano e Firenze, attingendo al degrado e al lato oscuro della esistenza. Da qui il lato “Cronaca” del nome.

E da questo è nata la scelta musicale di mischiare i due generi di musica povera per eccellenza: il punk e il blues. Il lato “Preghiera” è arrivato dopo, e ha colorato di spiritualità, organi e cori da chiesa alcuni brani e testi del disco.

Molte persone hanno contribuito: Ljubo che ha rivisto / scritto parte dei testi e Vanessa che ha aggiunto la sua bella voce, Antonio Polidoro che ha registrato magistralmente il tutto, Astarte Agency che ci ha supportato con grande energia e professionalità.

In che periodo di tempo è stato composto l’album? E’ il frutto di un periodo lungo oppure lo avete scritto in tempi brevi? Qual è stata l’atmosfera durante la composizione e la realizzazione dell’album?

L’album è stato composto in un anno e mezzo. Tempo dovuto alla logistica (distanza Milano / Firenze) più che a motivi artistici. Quasi tutti i pezzi sono nati “buona la prima” e non c’è quasi differenza tra provini e disco.

Quindi il tutto è stato scritto in tanti brevi periodi diluiti in un anno e mezzo. L’atmosfera è sempre stata serena, dominata dalla totale comunione di intenti e voglia di fare.

In alcuni casi ci siamo ritirati in un eremo sull’Appennino (vicino a casa di Giovanni Lindo Ferretti) proprio per godere e trarre ispirazione dal relax e concentrarci a tirar fuori, senza mezzi termini, tutto quello che volevamo esprimere di oscuro e ironico, senza censure e ripensamenti.

Perché avete scelto di fare una cover de “La croce” di Bonomo?

Già il titolo della canzone si concilia con il nostro lato “Preghiera”, il nostro lato di spiritualità atea. E’ una canzone meravigliosa che nella versione originale non è molto sostenuta, a parer nostro, da un bell’arrangiamento.

Così l’abbiamo fatta nostra, valorizzandola con un arrangiamento blues onirico, che richiama le colonne sonore dei film di David Lynch. Si sposa molto bene con il resto dell’album per le tematiche trattate. Non è solo una canzone malinconica: è reattiva e vitale.

Se stessimo parlando di canzoni pop, penso che per “Costa meno andare a troie” affrontereste quantomeno qualche accusa di maschilismo… Come nasce la canzone?

“Costa meno andare a troie” è assolutamente una canzone maschilista. Nel disco abbiamo affrontato tutti i nostri lati oscuri, personali e musicali, e quindi abbiamo fatto i conti con il nostro essere maschi.

Il sessismo è una parte della nostra società; la sua metà femminile (il femminismo) è vista come buona mentre l’altra come cattiva e retrograda.

Pensiamo che questa distinzione sia non realistica e di questo abbiamo parlato, non senza una certa ironia, affondando le mani nello sfruttamento della prostituzione, negli scambi di coppia, nelle relazioni malsane. La musica vi si adegua, vagamente ispirata alla colonna sonora di “Crash” di Cronenberg.

Uno dei pezzi più curiosi del disco è “L’abominevole uomo Cupo”: come nasce il brano e perché avete scelto un recitato invece che un classico cantato?

“L’abominevole uomo cupo” nasce come parodia delle canzoni dei gruppi come Massimo Volume e Offlaga Disco Pax, che usano il recitato al posto del cantato.

Nonostante questi gruppi ci piacciano molto, ne cogliamo talvolta gli aspetti paradossali e su questo abbiamo giocato, con umorismo. Il protagonista del brano riflette un po’ i canoni delle canzoni dei suddetti, un uomo cupo e triste, solitario, perso in una metropoli che non gli comunica niente.

Almeno fino a metà della canzone, dove è folgorato dall’illuminazione “Io non rido mai”; si rende conto del suo malessere e che il suo malessere domina la sua vita senza humor.

Allora un coro da chiesa e un organo liturgico lo accompagnano in questa presa di consapevolezza fino alla fine del brano. E’ probabilmente il nostro pezzo preferito dell’album.

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