Fuori dal 3 novembre Fotosintesi, il nuovo ep di Roberto Salis. Tre canzoni che mostrano tutte le capacità del musicista sia dal punto di vista testuale che di sound.
In Fotosintesi sembri trasformare esperienze e stati d’animo in energia musicale: qual è stata la scintilla iniziale che ha acceso questo processo creativo?
La scintilla è arrivata dal live, perché è lì che vivo davvero la musica. Suono praticamente tutte le notti: passo dal vintage al pop, dal rock al blues all’improvvisazione con la chitarra sulla deep, afro house, lounge… Insomma, ciò che la serata richiede. È in quel flusso, nel contatto con le persone, che nascono le idee. La mia sperimentazione parte sempre dal palco e solo dopo si trasferisce in studio. I testi, o almeno le idee, erano già lì da tempo. A un certo punto ho sentito la necessità di fissare tutto ciò che ogni giorno costruisco e vivo.
La verità è che questi anni non sono stati facili, né per me sul piano personale, né per il periodo storico in cui viviamo. Non è più come negli anni ’70 e ’80, quando la musica aveva un suo percorso, un suo business chiaro. Oggi, con la finta illusione di dare opportunità a tutti, la musica è stata resa “gratuita”… e quando qualcosa diventa gratis, inevitabilmente perde qualità e valore. È come se tutto ciò che mangiamo venisse regalato: il settore alimentare crollerebbe , quelli che ci lavorano farebbero la fame e ciò che riceveremo non sarebbe certo di qualità. La qualità è sempre ciò che conta davvero, non la quantità.
Allo stesso modo, è come se qualcuno che fino a ieri giocava all’Allegro Chirurgo domani potesse tentare una vera appendicite: la rete ha generato anche questo paradosso. Tra software, social e scorciatoie, in molti credono che “fare musica” significhi premere tasti. Fiammate, sì, ma pur sempre fuochi di paglia. Prima c’era un pentolone, con dentro chi si faceva davvero il mazzo per proporre buona musica agli addetti ai lavori; oggi internet, fuori controllo, è diventato un oceano in cui è entrato chiunque, senza alcun filtro. E in quell’oceano devi navigare per trovare la qualità… ed è sempre più difficile.
L’unica vera scrematura, oggi, la fa il live: lì non puoi bluffare. Come diceva il grande Jannacci in ” ci vuole orecchio”. La musica è un lavoro: richiede esperienza, amore, sacrificio, e dovrebbe essere ricompensata in modo adeguato, com’era un tempo. La discografia praticamente non esiste più, e oggi tutto ruota attorno al live. Per me, Fotosintesi è esattamente questo: dare un senso a ciò che vivo ogni notte e trasformarlo in qualcosa che resti.
Se potessi mostrare ai tuoi ascoltatori un “dietro le quinte” dell’ep, quale dettaglio curioso o inatteso sceglieresti?
Mostrerei che dietro Fotosintesi non c’è nessun rituale preciso, ma un caos creativo continuo… però estremamente definito. È un po’ come quando lasci una stanza in disordine, ma tu sai esattamente dove trovare tutto (per la gioia di mia moglie!). Spesso torno dopo le serate e registro quello che mi passa per la testa, ma altre volte finisco per catturare suoni completamente casuali. In questi giorni, per esempio, sto registrando il rumore della grattugia del parmigiano col cucchiaio. Dipende dal momento, da ciò che sto ascoltando o da quello che mi colpisce.
Ultimamente sto ascoltando moltissimo Tom Waits e Love and Theft di Bob Dylan. Li conosco da una vita, ma ora — non so bene perché — ci sto entrando dentro in modo diverso e più profondo. Una delle cose che amo fare è spogliare i brani fino all’osso, capire davvero da dove arrivano. È un vizio che ho anche nella vita: scavare, andare oltre la superficie, cercare sempre la verità, cercare le cause che creano le conseguenze. Per questo non sopporto gli yes men e le facce di circostanza.
Un grande produttore degli anni ’70–’80 una volta mi disse nel 2005 : «Salis, se un brano sta in piedi solo con voce e chitarra, allora puoi vestirlo come vuoi — pop, rock, country, swing, elettronico — e camminerà da solo». È un insegnamento che ho ritrovato negli anni, suonando davvero di tutto per lavoro. Per questo prendo anche pezzi super elettronici e li riduco a voce e chitarra, per renderli più viscerali.
E ti dirò di più: molti artisti che suono la notte — anche quelli più elettronici — quando li spogli, spogli e ancora spogli… se c’è un motivo che mi prende è perché, da qualche parte, c’è sempre un po’ di blues. Più o meno nascosto, più o meno evidente, ma quasi sempre presente. Se non c’è, automaticamente non mi attira. È un po’ la mia cartina di tornasole: qualcuno lo vedrà come un pregio, altri come un limite, ma è così.
Il vero “dietro le quinte” dell’ep è questo: improvvisazione pura, strumenti improbabili, ascolti intensi e il bisogno di spogliare ogni brano fino a lasciarlo nudo, per capire davvero come starebbe… nudo.
In Rido la leggerezza convive con una profondità tagliente: come hai trovato questo fragile equilibrio?
Rido nasce da un provino che ho mandato ad Alessio Luise, un amico e autore di canzoni e libri con cui condivido vent’anni di vita. Dentro c’era quella frase: “Come faccio a… e alla fine sempre questo rido, rido”.
Mi ha colpito perché quella risata la conosco davvero. È quella che ti esce quando non hai più forze per spiegare, per difenderti, per giustificarti di ciò che non fai.
Quando capisci che dall’altra parte non c’è alcuna volontà di ascoltare, ma solo il bisogno di scaricarti addosso le loro mancanze. È una risata che non fa rumore. Ti resta dentro. È il segnale che sei arrivato al limite ma, invece di crollare, rimani in piedi. È amarezza pura, lucidità, un modo per non farti schiacciare.
Per me Rido è questo: una risata che non finge. Non copre il dolore, lo guarda negli occhi e lo attraversa.
È la risata che ti viene quando capisci che certe situazioni, certe persone, non cambieranno mai — anche quando sanno benissimo di fare casini. È egoismo, punto. E allora, per non affondare, ridi.
Non perché sei leggero, ma perché sei stanco. Stanco della manipolazione, dell’ipocrisia, delle scuse infinite.
Stanco di chi pretende, di chi chiede sempre e non dà mai. E poi c’è il mondo in cui viviamo. Un’epoca che finge di essere semplice, ma non lo è affatto. Anche la musica è diventata così: prima toccavi un disco, una cassetta, un CD. Toccavi la fonte, la sorgente da dove usciva quella canzone.
Oggi tutti possono provare a fare “musica”: tutto è alla portata, ed è sbagliato, perché svaluti qualcosa di profondo. Ora la musica vive dentro un telefonino, una chiavetta. Hanno tolto identità alla musica, mascherandolo da comodità. Ma la vita insegna che le cose troppo comode, alla lunga, non portano da nessuna parte e non hanno valore.
È un periodo in cui lavori da 100 e raccogli 10; prima lavoravi da 10 e raccoglievi 100. Ma è tutto ben camuffato. E se non impari a ridere (difendendoti), sei finito. Il fragile equilibrio tra leggerezza e profondità nasce proprio da qui: dall’esperienza, dalla fatica, dalle notti passate a suonare, guardare, ascoltare e parlare con le persone. La musica non mente: se dentro sei rotto, lo mostra la rivela.
Per me ridere è una forma di resistenza. È trasformare la delusione in arte. È riconoscere le cicatrici e non vergognarsene, anzi: mostrarle. Rido è quel momento in cui capisci che, nonostante tutto, devi andare avanti.
Una risata che brucia, ma ti tiene in piedi.
Yes Man racconta un mondo pieno di maschere. Qual è la “maschera” che più spesso ti chiedono di indossare nella musica o nella vita?
La maschera che più spesso ti chiedono di indossare — nella musica e nella vita — è quella della persona che si accontenta. Quello che segue la corrente, la moda del momento, come se bastasse per definirsi.
(Ed è proprio questo che vogliono: che tu non abbia un’identità). Quello che non disturba, che non va a fondo, che non formula domande scomode. No, grazie.
Le passioni non sono mode: sono ossessioni che ti mettono radici nel cammino e ti mantengono in piedi
Sono loro a fare la differenza, a sorreggere la tua anima e tutto ciò che fai. Le mode evaporano. E se non hai una strada nell’anima, ti sgretoli insieme a loro.
Ogni tanto qualcuno mi dice: “Eh, vivi di musica… dovresti ringraziare”. Ringraziare chi, esattamente?
Non ho trovato un biglietto vincente sotto un lampione. Non mi è piovuto nulla dal cielo. Lo sappiamo solo io e mia moglie cosa c’è dietro: anni di sacrifici che definire “assurdi” è gentile, scomodità che ti fanno dubitare di tutto quello che stai facendo, periodi di depressione che ti scorticano vivo, derisioni, porte in faccia, umiliazioni.
Lo “stirarsi parecchio e accontentarsi per mangiare”: l’ho imparato quando arrivai a Milano senza niente.
Vivere nella periferia sud per anni, a Corvetto in una stanza da 400 euro con uno stipendio da 700 significa sopravvivere a Milano con 300 euro. Un esercizio di magia, più che di contabilità. L’ho fatto per anni, perché se vuoi vivere di musica devi stare a Milano. Fine della discussione.
Non c’era nessuno. Zero. Sempre tutto da solo. Solo il lavoro che mi sono costruito e la forza che mi sono dovuto cucire addosso, con una mano poco ferma e nessuna alternativa.
Se oggi vivo di musica — e vivere significa pagare il mutuo (di una casa che io e mia moglie ci siamo comprati da soli, trasformando le nostre passioni in un lavoro vero), le bollette, le tasse, tutto — ogni tanto penso:
beh, per uno cresciuto sentendosi dire che non avrebbe mai combinato niente, che sarebbe stato un fallito con “le sue idee strane”, che doveva guardare gli altri perché ciò che pensava lui era sempre sbagliato… non male.
Non male davvero, per qualcuno a cui è stato insegnato a non credere in sé stesso e nella propria visione.
E per me questa è la normalità: è sempre l’inizio di qualcosa che devo ancora raggiungere.
Di faccia ne ho una sola. Non so separarla dalla musica. Non è poesia: è geografia personale. Senza la musica, semplicemente, non ci sarei. La chitarra mi ha salvato la vita. Mi ha tirato fuori dai casini. Seriamente. Per questo: no alle facce finte. No ai sorrisi di plastica. No al voler piacere a tutti. Mai.
Un filosofo diceva di diffidare di chi piace a tutti e di chi non litiga mai con nessuno: significa che cambia faccia a seconda della stanza. E chi cambia faccia troppo spesso — oggi più che mai, con la velocità a cui gira tutto — prima o poi fallisce.
Yes Man parla proprio di questo: della fatica di restare veri. Del prezzo che paghi quando scegli di essere te stesso, non ciò che gli altri trovano più comodo. Perché spesso ti dicono che scavare non serve, che andare a fondo è inutile. Di solito lo dice qualcuno che ha paura di guardarsi allo specchio. Qualcuno che non cresce, non si confronta, e — peggio — si autoproclama bravo, nella vita e nel lavoro, senza migliorarsi mai.
Preferisce starti addosso con quella viscosità tipica degli invidiosi(magari travestiti da amici), per convincerti che quello che fai non vale niente, per sminuirti ogni volta che può. E se lo sgami, “stava scherzando”.
Se fai finta di niente, affonda il colpo. Questi personaggi stanno venendo a galla sempre più spesso. E sì: sono una costola degli yes man.
Qualche tempo fa mi contatta un’etichetta. Li ascolto parlare… e parlano solo di numeri: follower, fanbase, engagement. Delle canzoni? Del suono? Delle idee? Assolutamente nulla. Come se la musica fosse un gadget da affiancare a un profilo social.
Allora chiedo: “Ok, ma quando uno ha milioni di follower — magari comprati — e poi sul palco è imbarazzante, per non dire altro? Quando la maschera cade, che fate?” Silenzio.
Come se non fossero abituati a domande così… elementari.
Perché di musica si deve parlare. I social servono, certo. Ma se non hai contenuti, il trucco svanisce in un attimo. Sono i contenuti che devono reggere i social, non il contrario.
Ed è questo che mi irrita: un mondo imbarazzante che ci tratta da idioti, che non pensa e che preferirebbe ci adeguassimo felicemente alla stessa mancanza di pensiero.
In Change (In The Air) la voce sembra quasi un respiro. Hai pensato prima al testo o alla sensazione che volevi far provare?
Change (In The Air) è nata dall’idea di costruire un brano su un solo accordo: un punto fermo in cui, curiosamente, si muove tutto. Un po’ come il pendolo di Foucault: non fa nulla di spettacolare, continua semplicemente a oscillare mentre la Terra si muove. Ecco, il brano nasce proprio da quel movimento silenzioso, da quella vibrazione che percepisci prima ancora che qualcuno trovi il coraggio di nominarla.
È la sensazione che provi quando capisci che sta per succedere qualcosa… ma tutti fanno finta di niente, come sempre. Il pezzo parla esattamente di questo: del cambiamento inevitabile, di quello che ti attraversa anche quando decidi di ignorarlo — scelta molto popolare, di questi tempi.
Viviamo in un mondo che ci vuole veloci. Non veloci dove vogliamo andare noi, ovviamente: veloci dove fa comodo a chi gestisce il traffico. Ci vendono comodità spacciandole per progresso, “per il nostro bene”, ma il bene è quasi sempre di chi tira i fili. Sono modi educati per tenerci in superficie. A me la superficie interessa poco: preferisco scendere in profondità, cercare il corallo. A galla resta solo ciò che “non ha peso”.
Musicalmente è un deep blues su un solo accordo, un loop ipnotico. L’ho vestito in modo più moderno per arrivare anche ai più giovani, ma l’ossatura è antica. Quella non si tocca: ti sostiene, non ti tradisce mai.
Il cuore del brano è semplice: nella calma vedi tutto meglio. Quando smetti di correre al passo che ti impongono gli altri, inizi finalmente ad andare più forte. E qui apro una parentesi: ci ripetono che “andiamo veloce”, ma spesso quel veloce è solo un modo elegante per dirti “stai al tuo posto”. È come se in una gara di atletica in cui ti obbligano a correre in gruppo: in teoria per sicurezza, in pratica per evitare che tu prenda vantaggio.
La standardizzazione serve a questo: a farci credere che valiamo tutti allo stesso modo, bravi o non bravi, tutti sullo stesso binario. Una bugia rassicurante per molti, ma sempre bugia resta. Magari, se vai al tuo ritmo, scopri di essere molto più forte di quanto ti abbiano fatto credere. E questo, a molti, non conviene: è dura guardare in faccia i propri limiti — soprattutto quando non hai alcuna voglia di migliorarli — mentre tu inizi davvero a correre e prendi vantaggio.
Vuoi una prova semplice? A volte non è il brano a fare la differenza: è chi lo suona. Una canzone qualunque, nelle mani di chi ha sangue, mestiere e vita, diventa viva bella interessante. La stessa canzone, nelle mani di uno yes man, muore ancora prima di iniziare , brutta , insignificante.
E poi ti distraggono con la solita domanda: “Ti piace quel genere? Ti piace quella canzone?”.
La risposta corretta sarebbe: dipende da chi la suona. È come in cucina: stesso piatto, risultati opposti. Conta lo chef.
Change (In The Air) dice questo: la corsa che ci impongono è caos, una trappola travestita da efficienza.
È come quando qualcuno parla velocissimo per non farti capire niente: più muove l’aria, meno dice.
Il cambiamento vero arriva quando ti fermi, quando respiri, quando scegli tu la direzione.
Battiato parlava del suo “centro di gravità permanente”. Non voglio certo fare paragoni con un gigante, ma nel mio piccolo il mood è quello: restare centrati, non farsi trascinare.
Il brano è sospeso, senza rabbia ma con verità. Credo che nonostante tutto, nell’aria c’è ancora qualcosa che si muove nella direzione giusta. Serve solo il coraggio di sentirlo. E di seguirlo.
C’è un aspetto della tua musica che pensi venga ancora sottovalutato o poco compreso dal pubblico?
Non lo so, bisognerebbe chiederlo a loro. Credo però che una cosa sia chiara: io sono — prima di tutto — un musicista che arriva dal live. Molti mi scoprono proprio dal vivo e solo dopo mi chiedono dove possono ascoltare o scaricare la mia musica. Il mio vero mondo è il palco: è lì che capisci davvero cosa faccio, come suono, come lavoro. Ed è lì che mi sento davvero a mio agio. E questo si collega perfettamente a ciò che dicevamo prima: oggi la musica si regge quasi solo sul live. È la parte più autentica, più sincera, quella che non mente mai.
Ricordo quando, nel 2005, arrivai a Milano e giravo per i discografici — quei pochi che ancora resistevano. Quel famoso discografico di cui ho già parlato prima mi disse: “Salis, con il tuo carattere introverso e la tua timidezza, le persone hanno bisogno di vederti suonare. Se dovessi spiegare o parlare della tua musica sei poco convincente”. E con il senno di poi aveva pienamente ragione. Oggi più che mai.
Mi disse anche un’altra cosa, che col tempo ho capito essere stata quasi profetica: “La musica come l’ho vissuta io sta finendo. I cd non si venderanno più. Le case discografiche investiranno sempre meno, fino quasi a scomparire. Rimarranno i musicisti: magari non guadagnerete come negli anni ’70 e ’80, ma vivrete dignitosamente del vostro mestiere”. Aveva visto tutto con anni d’anticipo: una lucidità rara.
Online ormai sembra tutto uguale: filtri, produzione, patina. Dal vivo, invece, vedi le mani, senti il suono reale degli strumenti, l’energia, l’improvvisazione, la presenza. Non puoi Bluffare. Io vivo suonando, quasi tutte le sere. E chi mi conosce solo tramite lo streaming non percepisce sempre la parte artigianale, fisica, concreta del mio lavoro.
Con Fotosintesi ho cambiato mood: in studio faccio praticamente tutto io — suono tutte le chitarre, elettriche e acustiche, il dobro, le parti ritmiche e soliste, il basso, synth, percussioni e voce — e cerco sempre di mantenere quello spirito artigianale. E credo stia funzionando, visto il riscontro di quello che faccio.
Faccio tutto in funzione della musica, non di un algoritmo — quello, sinceramente, non mi interessa.
Credo solo che la musica non si divida tra “vecchia” e “nuova”, ma tra bella e brutta. Come tutte le cose.
Guardando la tua carriera, quale incontro o collaborazione ti ha cambiato davvero il modo di suonare?
La mia “carriera” spero sempre sia solo il niente rispetto a ciò che vorrei fare. Comunque, non credo sia stato un singolo incontro a cambiarmi il modo di suonare, quanto piuttosto un insieme di persone, di musicisti, di professionisti — e, naturalmente, quelle esperienze un po’ più dure che la vita ti porge senza tanti complimenti. Le porte in faccia, per esempio, sono ottime maestre: poco piacevoli, ma sempre puntuali.
Ricordo un discografico che ascoltò un mio brano e mi fece un complimento enorme, paragonando il mio modo di suonare a quello di un grande chitarrista. Io ero al settimo cielo. Poi, con quella tranquillità tipicamente milanese — che disarma — aggiunse: “E dunque? Cos’hai inventato di nuovo?”.
Fu un momento rivelatore, soprattutto per uno come me, appena arrivato dalla Sardegna e catapultato nel mondo reale della musica e della vita. Mi disse: “Quel chitarrista esiste già, ha fatto scuola. Tu devi trovare la tua voce. Ascolta altro, contamina il tuo stile. È così che nasce un’identità”.
Parole semplici, ma affilate come un bisturi. Da quel giorno iniziai a spostare tutto ciò che facevo anche sull’acustica, trattandola come un’elettrica, senza pormi limiti. Ci sono state delle volte in cui ho dovuto suonare in strada per vivere. Non è romantico, e non ha nulla di “libertario”. Chi lo racconta così, di solito, ha le spalle coperte… e si vede: in strada non porti una chitarra da 1.500/2000 euro euro, non sfoggi jeans firmati o barbe artisticamente disordinate. E, soprattutto, non torni la sera nella casa accogliente magari di mamma e papà. Insomma: non lo fai per folklore.
Quando lo fai davvero per vivere, suoni con qualsiasi clima — sole, freddo, pioggia (le tonsilliti me la sono portate a casa), e anche con incontri spiacevoli che puoi fare in strada. In quei momenti pagheresti oro per suonare in un locale caldo e sicuro. È per questo che certi slogan poetici o patetici mi fanno sorridere: li riconosci al volo. Poi ci sono gli incontri che ti cambiano senza volerlo. Magari ci suoni un’ora, scambi qualche parola, e il tuo asse si sposta.
Ho avuto l’onore di suonare con la grande Irene Fargo. Le prime prove con lei, per esempio, sono qualcosa che non dimenticherò. Una presenza quasi luminosa. Cantò i brani a cappella, senza microfono, solo per farli sentire: brividi immediati, pelle d’oca, occhi lucidi. E quei suoi occhi verdi, profondi e gentili, magnetici che ti bucavano l’anima ma capaci di metterti a tuo agio senza dire nulla.
Ricordo il timore, quasi un senso di inadeguatezza: “Sono davvero io quello che deve suonare con lei?”
Durante una prova aggiunsi qualche nota in un obbligato — un riflesso naturale del mio mondo blues. Lei concluse il brano, si voltò e disse, con rigore assoluto: “Studialo come nel disco. Non oltre.” Una lezione impeccabile, dettata dalla mia — in quel caso — mancanza di esperienza in quel mondo pop.
Poi andò tutto benissimo: mi chiese di cantare con lei, e di fare i botta e risposta in Sabbia d’Africa. Io, che non mi sono mai considerato un vero cantante ma una voce “cantautorale”. Mi disse: “Hai una voce profonda, che comunica.”. Un riconoscimento che, detto da lei, pesava come oro.
Durante i live mi lasciò molto spazio con la chitarra, e con lei capii la differenza tra la libertà dell’improvvisazione — e del rischio del mio mondo che avevo sempre suonato— e la disciplina del pop di alto livello, dove ogni nota ha un posto preciso e non gradisce essere spostata.
Poi c’è Londra. Fino al COVID mi dividevo tra Milano e Londra, e lì il pubblico è diverso: attento, esigente, quasi scientifico nell’ascolto. Il loro “karaoke”, se così si può dire, è il blues. In ogni locale si suona il blues.
Suonarlo a casa loro è una prova di sincerità: ascoltano tutto, ogni sfumatura, ogni differenza culturale. È una scuola intensiva: onesta, diretta, talvolta spietata… e proprio per questo preziosa.
Ricordo serate che iniziavano alle 23 e finivano alle 2 senza un attimo di pausa: un flusso continuo, imprevedibile, liberatorio. Un pubblico che ti ascolta davvero, musicisti che ti lasciano spazio e allo stesso tempo ti spingono a dare di più.
Potrei raccontare molti episodi, ma credo che la verità sia semplice: non esiste lezione più grande dell’esperienza diretta. I rapporti umani, il confronto, le serate splendide e quelle disastrose: tutto entra nel tuo modo di suonare e non ne esce più. E poi c’è il pubblico, che è una forma di collaborazione . Suonando ogni sera impari a leggere l’energia della sala, a capire quando spingere e quando trattenerti. È un dialogo vero, e come ogni dialogo ti cambia.
Ogni incontro, ogni palco, ogni errore, ogni musicista incrociato — tutto questo ha trasformato il mio modo di suonare più di qualsiasi metodo canonico. E forse la mia crescita nasce proprio da lì: non da un maestro unico, ma da una vita intera di musica condivisa…
Qual è la domanda che nessuno ti ha mai fatto ma che avresti voluto sentirti rivolgere?
Forse avrei voluto che qualcuno, mi chiedesse: “Che cosa hai davvero sacrificato per la musica? Per una passione che hai trasformato in un mestiere — e che quasi mai è un mestiere semplice?”
È una domanda che contiene più risposte. Perché dietro la facciata romantica dell’artista ci sono rinunce che non fanno rumore: amicizie che si assottigliano fino a dissolversi, rapporti che scopri non essere mai stati tali, molta solitudine, periodi di depressione e quella sensazione sottilissima — ma costante — di non essere accettato per ciò che sei, bensì per ciò che gli altri avrebbero preferito che tu fossi.
La famiglia d’origine, in questo, è un capitolo a parte: affetto, sì, ma anche aspettative che non hanno quasi mai voluto fare i conti con chi sei davvero — e le conseguenze te le porti addosso.
E poi c’è Milano. Una città splendida, ma che non mente: ti sbatte davanti la verità senza filtri, senza attenuanti, con una franchezza quasi clinica. Se vuoi fare sul serio, in tutto , devi stare qui. È un rito di passaggio che non tutti dichiarano, ma tutti conoscono.
Chi è fuori da questo mondo spesso non capisce — e, il più delle volte, non vuole nemmeno provarci. Anche perché, come detto in precedenza, vivere di musica oggi non è più come una volta: senza un vero business discografico è davvero difficile. A volte sembra di scalare una parete di specchi insaponata.
Così perdi persone, abitudini, affetti. Ti ritrovi per un po’ sospeso tra due vite, e devi scegliere: quella che lasci alle spalle per quella che stai costruendo. E a volte ti senti perfino in colpa… semplicemente perché hai scelto di essere te stesso.
Non è vittimismo. È lucidità. Fare musica per lavoro — non per hobby, non per passatempo — ti chiede più di quanto uno possa immaginare. E ogni mattina ti rimette davanti la domanda: “Quanto sei disposto a dare oggi? E domani? E il giorno dopo ancora?” È una domanda che non fa sconti, non accetta scuse, non aspetta nessuno.
Poi, per fortuna, ci sono gli incontri giusti. Io considero un privilegio — non un merito — aver incontrato mia moglie. È una rarità trovare qualcuno che non solo ti accompagna, ma comprende davvero le ragioni profonde delle tue scelte, i tuoi silenzi, le tue rabbie, i rientri tardi e stanchi. Qualcuno che ti vede per ciò che sei, non per ciò che sarebbe più comodo tu fossi. Una fortuna enorme, tutt’altro che scontata.
Il resto lo devo alla musica. Alla musica devo la sicurezza che un tempo non avevo, una voce interiore più solida, un carattere costruito passo dopo passo. A lei devo gli amici che ho oggi, la casa in cui vivo, e quella sensazione preziosa — rarissima — di avere tra le mani un mestiere vero: imperfetto, faticoso, ma mio.
Un mestiere che mi ha permesso di restare me stesso. O meglio, di scoprire chi ero e chi sono.
Alla fine, credo che il vero sacrificio sia stato questo: lasciar andare ciò che non ero, per diventare finalmente ciò che sono. Un sacrificio , fatto di scelte concrete e quotidiane — ma che rifarei esattamente allo stesso modo. Solo molto prima.

