Tralasciando le ovvie considerazione e/o freddure che potrebbero accompagnare un concerto di una band che si è intitolata, sostanzialmente per caso, Turin Brakes e che suona a Torino, si procederà a raccontare quello che è stato un live set potente e coinvolgente, anche al di là del previsto.
La serata, che si celebra negli spazi non vastissimi dell’Astoria, è aperta dalle vibrazioni degli italiani Dog Byron, che compattano i propri suoni in un live ricco di sfumature rock tra classico e oscuro, con qualche radice blues. Robusti, convinti e con una voce molto decisa, i tre presentano se stessi e le proprie canzoni, completando il discorso con una dedica agli stessi Turin Brakes, dei quali sono stati spalla per molte date anche all’estero, e dalla cover (però dei Cure) di Lovesong.
Ci sarebbero considerazioni da fare sulla carriera di una band che ha alle spalle molti album, oltre quindici anni di storia, oltre un milione di dischi venduti e che si trova a suonare in un ambiente molto ristretto, più adatto a esordienti che a band internazionali. Ma la sovrabbondanza di offerta musicale dal vivo gioca anche scherzi simili, senza contare che i Turin Brakes, oggettivamente, non hanno mai saputo replicare il successo pop di Painkiller, risalente al 2003.
Tuttavia gli spazi angusti si rivelano invece piuttosto congeniali per i Turin Brakes, che affrontano l’atmosfera “garage” con il giusto spirito e la giusta energia (il bassista arriva ad affermare che “piccolo è bello”). Il concerto è aperto da una molto energica Would you be mine, dall’ultimo Invisible Storm. Ecco poi Wait, in ordine di scaletta anche del disco, a scaldare adeguatamente il pubblico. Una più interlocutoria Life Forms prosegue il tracciato e sembra preannunciare un live incentrato sulla produzione recente.
Errore: si torna presto indietro, con una Future boy presa dall’esordio The optimist lp, datato 2001 ma tuttora il disco più amato e probabilmente di maggior valore della band. Il pezzo è introdotto da qualche lazzo sulle speranze future tradite, ma quando si passa all’esecuzione emergono soprattutto passione e molta cura. Stessa intensità per State of Things che vede anzi un netto innalzamento della potenza di fuoco da parte del quartetto.
L’evoluzione del gruppo, nato come duo fondato da Olly Knights e Gale Paridjanian sull’onda dell’onda neo acustica che per breve tempo prese piede a inizio anni Duemila (della quale facevano parte band come gli Starsailor o gli scandinavi King of Convenience, protagonisti proprio con i TB di un tour anche italiano in quegli anni) oggi ha abbandonato le morbidezze acustiche iniziali in favore di una formazione da classic rock con una robusta sezione ritmica rappresentata da Rob Allum (batterista) ed Eddie Myer (bassista, sostanzialmente sosia di Shel Shapiro).
Si torna sul morbido con un altro pezzo piuttosto agé come Ether Song, portatrice di buone armonie vocali. Man mano che il concerto procede e a dispetto della fama soft degli esordi, la band picchia, guidata da una batteria precisa e continua, ma anche capace di esplosioni improvvise.
Sì torna al passato antico con Emergency 72, che viaggia in semiacustico a dare spazio alla voce, ma in crescita veloce e chiusa con evidenti tendenze psichedeliche. La già citata Painkiller, il pezzo più noto della band, arriva a spezzare il set, ma senza rinunciare a un’aria rock quasi garage (sarà il posto, sarà l’atmosfera) e anche con una gioia di suonare, e di suonare forte, piuttosto trasparente.
Invisible storm, title track dell’ultimo album, arriva con le proprie morbidezze trasfigurate da volumi alti e da un muro del suono costruito su livelli alti. Finale con jam a volumi altissimi, neanche fossero i Kiss.
Tra i bis menzione speciale per il classico Underdog (Save me), che ha un’apertura quasi dub e uno svolgimento più regolare, fino a un finale infuocato e con l’unica botta di protagonismo di Paridjanian. Dopo qualche equivoco con il mixer che fa partire la musica “di uscita” e la band sul palco a dire: “Non abbiamo ancora finito”, si procede con un altro paio di pezzi, ultimo dei quali è una corposa Slack, sempre dall’esordio del 2001, che alla fine ha costituito la spina dorsale della serata.
Quasi a voler contrastare qualche impressione lasciata dall’ultimo disco, buono ma non ottimo e in certi casi molto pop, la band opta per un set tutto rock, molto forte, sempre ruvido anche quando ci si aspetterebbe il velluto. Certe tempeste sono invisibili, ma si sentono eccome.
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