“La febbre del venerdì 13”, La febbre del venerdì 13: la recensione

Si chiama La Febbre del Venerdì 13, ed è opportunamente uscito venerdì 13 marzo, il disco di Andrea Zucaro, che pur suonando da solo (con qualche collaborazione degna di nota) ha deciso di chiamare La Febbre del Venerdì 13 anche il proprio progetto.

La febbre del venerdì 13 traccia per traccia

Si parte dalla geometria: il lungo e curioso tratto introduttivo di Pentagoni cerca di suggerire che stiamo per entrare in un disco post rock/elettronico: è un inganno, perché il pop-rock si fa largo nella prima traccia e non ci lascerà più.

Messico rilancia sullo stesso tavolo, con sensazioni di british pop e richiami a certe idee in stile Baustelle. Più ritmata e integralmente brit Sfidi Mai, molto propositiva ma anche molto lineare.

Veloce e strumentale l’intermezzo di Moonocababa, con la chitarra protagonista, che lascia spazio a La Sorte dei Cantanti, piuttosto accelerata ma con qualche sorpresa, anche a livello di testo.

Semplice e molto lineare (tranne un finale inacidito) Il Rosso, che lascia spazio a Pit Stop, più ritmata e con un riff di basso piuttosto intenso, tra gli esperimenti migliori e più incisivi del disco.

Il ritmo è protagonista anche in Tigre, una scorribanda da un minuto e mezzo nell’elettropop anni Ottanta. Tutto diverso il clima di Veterano, che mette in evidenza la chitarra elettrica e un sound che prende qualche colore pischedelico.

Ci si aggira in atmosfera western con Nevada, calata in sensazioni morriconiane con chitarre che impazzano e ritmi a briglia sciolta.

Fatto salvo che qualche episodio non è imperdibile (Sfidi mai su tutte) nel complesso il buon talento pop di Zucaro emerge in buona misura, anche e soprattutto quando lascia spazio alle idee più borderline.

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