“Grazie picciotti, ci vediamo al merch per una foto, un abbraccio…” gracchia Marco Castello al microfono alla fine del suo concerto. Neanche il tempo di finire la frase che una mandria umana — educatissima e diligente — si riversa verso il baracchino del merchandising. Marco arriva in un batti baleno, quasi fresco, come se non avesse appena suonato per due ore al caldo in una serata di luglio a Collegno, per la sua data al Flowers Festival.
I fan, con lo sguardo pieno di gioia, aspettano scalpitanti il proprio turno per una battuta o una firma sul vinile. La serata è tutta lì, in una calca ammassata, ordinata nel suo caos più totale ma, soprattutto, felice. Una scena che trasuda Sicilia da tutti i pori.
Ma la storia inizia prima. Almeno un paio d’ore prima. Nessun artista a scaldare l’atmosfera: il pubblico – ed è veramente tanto – è tutto suo. Io – tanto per cambiare – finisco sotto palco. È un bel colpo d’occhio: l’umanità è varia e viva, dai gruppi di amici rumorosi alle coppie silenziose, fino ai padri trascinati dai figli, rassegnati ma comunque sorridenti. L’attesa è lunga, a tratti snervante.
Con un filo di ritardo, Marco sale sul palco, accompagnato dalla sua bravissima (per usare un eufemismo) band. Basso, chitarra elettrica, tre sassofoni, tastiere e batteria: la squadra è al completo. Marco è vestito in maniera sgargiante con la sua fida chitarra al collo (che a me, tutte le volte, sembra molto più grande di lui).
La scaletta è davvero serrata e pesca da entrambi i dischi del cantautore siracusano. Sul palco, sembra un allenatore di quelli bravi: chiama l’attacco di ogni canzone – a volte anche in modi poco ortodossi, con urla che sembrano assai simili a ululati. Il live è di una bellezza disarmante e scorre velocissimo.
La sezione sax, capitanata da Pietro Lupo Selvini, frontman dei Tropea, contribuisce a elevare il live a uno di quelli da dover ricordare. Come ogni allenatore con un gruppo di fuoriclasse, Marco prova a tenere sotto controllo la sua band, poiché tanto genio uguale tanta sregolatezza, che si dilunga a dialogare con il pubblico. La missione, per fortuna, fallisce – Marco nemmeno ci ha provato strenuamente, va detto – e vengono fuori degli stacchetti da stand-up comedy esilaranti.
Come quando il pubblico intona a gran voce Triquila di Tony Pitony. Tra le risate collettive, Marco, seguito dalla band, inizia a suonarla. Inutile commentare le urla generali da mercato del pesce – le mie in primis – per riuscire a ottenere una cover completa. Spoiler: non c’è stato verso.
Ci sarebbe un dettaglio da sottolineare. Il concerto è il 13 luglio, giorno storico per l’Italia del tennis perché Jannik Sinner vince il suo primo Wimbledon. Jannik è stato in grado di tenere l’Italia intera, anche quella poco avvezza al tennis, incollata al teleschermo per tutto il pomeriggio.
Allo stesso modo, Marco è in grado di far cantare l’Italia intera in siciliano. Anche chi siciliano non lo è. Il pubblico continua a seguirlo ciecamente anche quando intona la cover di Palco di Gilberto Gil in portoghese. “Un applauso a Marco Castello, il Sinner della musica italiana”, chiosa lo stesso Pietro Selvini dal palco in chiusura.
Polifemo recita: “La zia mi chiede quando vado a Sanremo/ Rispondo chissà”. Non lo sappiamo nemmeno noi ma vi abbiamo avvisati. Il Sinner della musica italiana è lui.
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