Un paio d’anni dopo Mondo e Antimondo, Olimpo diverso è il nuovo album di Umberto Maria Giardini: dieci brani cantautorali ma anche capaci di esplorare discorsi sonori piuttosto avventurosi, con grande cura del dettaglio.
Che Giardini, un tempo Moltheni, sia da sempre fra i cantautori italiani che seguiamo con maggiore attenzione non è un segreto, e c’è più di un motivo: anche in questo disco si conferma la capacità di (auto)analisi che viaggia sempre a profondità non consentite a tutti, ma anche una sensibilità sonora altrettanto non comune.
Umberto Maria Giardini traccia per traccia
Racconta al passato, UMG, nell’apertura del disco: Olimpo diverso, title track ricca di chitarra, di voce e di malinconie molto profonde, parla di ipocrisia e di una povera Italia che potrebbe ricordare la povera patria di Battiato, ma senza riscatto finale.
Un movimento impetuoso caratterizza Frustapopolo, lunga canzone dagli umori sciabordanti, che ora salgono e ora scendono, come di fronte a una marea di pensieri, culminando in un “Ecce Homo io/io di fronte a te“, una manifestazione poco divina e molto umana, che si chiude con un sax particolarmente notturno, vocalizzi non caratteristici e una chitarra elettrica insinuante.
C’è un motore ingolfato al centro di Topazia, fluida e ragionata canzone successiva. Il motore ingolfato è quello dell’amore, che fatica a partire in mezzo a immagini piuttosto sognanti. Al contrario la canzone scivola agilmente, con qualcosa dell’ultimo Bowie nelle sonorità.
Paga la vita è un racconto ricco di immagini e metafore che procede con una certa solennità, dando spazio alla voce sempre ricca di vibrazioni del cantautore. Piccola svolta sonora ed esplorativa nel finale.
C’è una Vipera blu da raccontare con calma subito dopo: una ballata gentile e triste che aggiunge piccoli tasselli sonori lungo il percorso, prefigurando un inferno di lava che però è narrato con estrema gentilezza nei toni e nei modi.
Molto battagliera Energia, che pure parla di “rimescolare cervello e mutande”, in una relazione evidentemente capace di coinvolgere a più livelli. “Megalomania di casa mia” è lo slogan centrale di un brano percussivo che sembra voler parlar di sesso, ma probabilmente non solo.
C’è molta lentezza in Pietre nell’accappatoio, che sfora quasi nello psichedelico, per parlare di intimità nascoste, per una relazione che “non fa più quell’effetto/dentro al mio letto“. Necessità di preveggenza e un’estetica quasi glitch quella che si incontra in Capire prima che accada, che lascia spazio a escursioni che sanno di jazz e di allucinazione morbida accompagnando le immagini, spesso di morte, che si estendono lungo l’arco del brano.
Chitarra e sensibilità rock/cantautorale quella che spicca da Mega estate, strumentale che ci accompagna verso la chiusura del disco, che arriva con Acquaforte: un ritratto morbido e vagamente inquieto, ricco di immagini e di tratti poetici, allusivi più che narrativi.
Con una vena sperimentale e, qui e là, quasi progressive, che si è manifestata più volte nel corso degli anni, e sicuramente con una grande attenzione ai dettagli, Umberto Maria Giardini aggiunge alla propria carriera un altro lavoro di altissimo livello.
Come se il gusto per la piccola scoperta, dello spingersi un po’ più in là, caratterizzasse ancora e sempre la sua ricerca personale, UMG continua la costruzione della propria personalità artistica, sempre più sfaccettata ma sempre più completa.
La presentazione del disco per la stampa parla di “una sorta di concept album rivolto alla comprensione del cambiamento umano degli ultimi anni”: tutt’altro che sbagliato. Solo che alla fine del cambiamento durante il quale ci accompagna l’album ci si ritrova esattamente allo stesso posto da cui eravamo partiti. Cambiati? Forse. Migliorati, probabilmente.

