Una storia che sembrava interrotta e che ricomincia: dagli anni del punk furente tornano i Gioventù Bruciata, gruppo che si era smarrito e che di recente si è ritrovato e ha pubblicato Gioventù Bruciata S/T. Li abbiamo intervistati.
Potete raccontare la vostra storia fin qui?
La nostra storia è lunga quasi vent’anni, non contando i frequenti periodi di inattività, quindi è un po’ dura da sintetizzare in poche righe, però diciamo che il succo è questo: siamo un vecchio gruppo punk di Formia, ridente e sorridente cittadina ubicata nel basso Lazio altresì detto sud-pontino, e siamo una diretta filiazione di quanto accaduto musicalmente e politicamente nel periodo che va dagli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta dell’underground italiano.
Nella fattispecie, abbiamo vissuto in pieno questo secondo decennio, sia come band che come singoli individui, prendendo parte a quella che oggi si definirebbe la “scena” del periodo, ma che naturalmente non era altro che un insieme piuttosto eterogeneo di persone belle e brutte che orbitavano intorno a specifici luoghi di aggregazione basati per lo più sulla cultura liberaria e sulla pratica dell’autoproduzione, musicale e non.
Abbiamo inciso e distribuito due demo su cassetta, come si usava all’epoca (“Gioventù Bruciata” nel 1997 e “Reazione Violenta” nel 2000), fatto un paio di centinaia di concerti in giro per la penisola, e poi silenzio dal 2004 all’anno scorso, quando abbiamo deciso di riformarci per chiudere ogni questione in sospeso, e anche perché in fin dei conti, nonostante le mille vicissitudini personali di ciascuno di noi, la motivazione e l’amicizia non sono mai venute meno.
Dove non è stato tecnicamente possibile avere dentro i membri originali, abbiamo sopperito reclutando sempre e solo vecchi amici, fino a giungere all’ultima formazione stabile che è per ¾ originale.
Il disco ha avuto una genesi molto particolare: potete narrare come è andata?
Siamo semplicemente tornati in sala prove da un giorno all’altro, ricominciando a suonare per scherzo le nostre vecchie canzoni, e ci siamo accorti – cosa che prima di tirare giù anche una sola nota potevamo solo ipotizzare o sperare – che la maggior parte della nostra produzione veniva fuori ancora valida e per lo più attuale, anche se le registrazioni delle demo – realizzate nella sbrigativa presa diretta con tassametro alla mano che si poteva fare allora – non avevano mai reso realmente giustizia a quel materiale.
Di qui la voglia di ri-registrarlo con mezzi moderni, aggiungendo tutti gli inediti rimasti in sospeso prima dello scioglimento e, se possibile, almeno un paio di canzoni nuove di zecca e due cover rappresentative. Così, armati della pazienza e dell’esperienza che ci erano mancate a suo tempo, ci siamo visti settimanalmente per provare e riarrangiare tutto.
Molti dei pezzi del disco sono stati concepiti a inizio anni ’00: con che occhio li guardate ora e come vi siete sentiti nel riascoltarli?
Considerando che siamo un gruppo punk, e che quindi il profilo tecnico delle cose ci interessa decisamente meno dell’impatto che dovrebbero avere, li vediamo come delle canzoni che ci sono venute fuori con la naturalezza e con l’urgenza tipiche di chi s’è rotto le palle.
Può darsi che avessero bisogno di essere limate e meglio eseguite, ma in sintesi erano buone allo scopo già in partenza, con la differenza che ora che le abbiamo fissate su vinile con la ripresa e il mixaggio che avremmo voluto (comunque piuttosto filologici), ci sentiamo come chi s’è finalmente vendicato. Bene, perdìo.
Come avete lavorato sui nuovi pezzi? Ci sono state differenze dovute alla distanza di tempo?
I pezzi nuovi sono l’espressione di individui che hanno passato da tempo la trentina, dunque sarebbe stato ridicolo o quantomeno anacronistico esprimerci come a vent’anni.
Dovevano parlare per forza di cose di una nuova serie di sentimenti e problematiche, o di problematici sentimenti: su tutti, l’amarezza per un certo senso di delusione e disillusione, e insieme la voglia di non mollare e di non ricadere in un facile quanto banale cliché distruttivo e autodistruttivo. Ma la rabbia è tutta dentro, e il veleno è tutto fuori…
Come avete scelto le cover da includere nel disco?
Setacciando il repertorio di due gruppi “amici” che secondo noi hanno rappresentato benissimo l’hardcore-punk degli anni Ottanta (Bloody Riot) e Novanta (Khalmo), con il preciso intento di rivendicare una sorta di continuità con la vecchia scuola.
Di qui anche l’incursione (divertentissima da ambo le parti) di Roberto dei Bloody Riot nel nostro remake della loro canzone che porta il nostro nome, ma da cui – contrariamente a quanto si è detto e scritto in più occasioni – noi non prendiamo il nome…
