Dopo un ottimo esordio nel 2011 e un significativo cambio di formazione, tornano gli Obake con il nuovo disco Mutations, un nuovo concentrato di metal, industrial, grindcore e parecchia altra roba.

Al posto di Massimo Pupillo, in questo disco la band schiera l’ex Porcupine Tree Colin Edwin al basso, a completare una formazione composta da Lorenzo Esposito Fornasari, Balazs Pandi e dal “perno” del gruppo, Eraldo Bernocchi.

Si parte pesanti: Seven rotten globes è una dichiarazione di guerra con distorsioni, suoni spessi e pesanti, rullate adirate e quant’altro. Si nota già da qui però una certa plasticità della musica degli Obake, che non si smarrisce nemmeno dietro le più acute escursioni vocali di Seth Light.

Un urlaccio introduce Transfiguration, pezzo seguente altrettanto aggressivo. Thanatos si annuncia non propriamente come un bagno d’allegria (ma del resto il titolo, come tutti sanno, significa “morte” in greco): sostanzialmente riprende e sviluppa i temi proposti nel pezzo precedente, concedendosi qualche voluta d’oscurità in più.

Ci si inabissa ulteriormente con Second Death of Foreg (che nell’intro, non si offendano i puristi, può ricordare le sonorità dei primi Metallica), che a metà brano inserisce un sorprendente intermezzo di pianoforte, a segnalare la versatilità della band.

E con Burnt Down si prosegue sul versante meno aggressivo, quasi jazzistico, della band: tutto sommato a volte sembra di trovare due gruppi affiancati, che suonano generi differenti.

La seguente M torna a mordere: le percussioni tornano a pestare durissimo, le chitarre impazzano, anche se la seconda parte del brano si chiude in se stessa, abbassa il volume, prima di esplodere di nuovo con forza nel finale.

Infinite Chain prosegue invece sul versante oscuro, con un tocco di new wave nell’introduzione e con un ritorno all’aggressività nella seconda parte, quando il ritmo sale.

Che il disco sia di livello internazionale non lo si giudica soltanto dall’arrivo di Edwin, dalla conferma di Pandi o da dove è stato registrato (da Daniel Sandor a Budapest nei Metropolis Studios) o  masterizzato (da Mike Fossenkemper negli Stati Uniti).

E’ la qualità di fondo che conquista e che fa avvertire il respiro internazionale delle otto tracce firmate dalla band, che avvertono quando afferrare al collo l’ascoltatore e quando invece accarezzarlo, grazie a una sensibilità multiforme e versatile.

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