La recensione: “The Love Hereafter”, Anthony Admired #TraKs

Esordio per Anthony Admired: The Love Hereafter è il biglietto di presentazione per il cantautore, che non nasconde forti influssi del rock-pop internazionale.

La produzione artistica è stata affidata a Marco DeFalco (alias Spiral, produttore/compositore/musicista italiano in attività da diversi anni, comeleader, compositore e fondatore dei Poli Opposti) e Sabrina Carnevale (alias Jean Drop, giovane compositrice e producer italiana).

Si parte con Astray, pezzo piuttosto esteso che inizia a mettere qualche paletto: l’ambiente in cui si muove il disco è quello di un rock-pop piuttosto “standard” ma non privo di eleganza.

Follow You abbandona una parte della morbidezza iniziale, mette in maggior evidenza i bassi e acquisisce un ritmo leggermente più pressante.

Sonorità confinanti con il soul per Seventh Heaven, che compensa una struttura non particolarmente innovativa con un eccellente lavoro di basso e con qualche trovata (tipo il coro celestiale).

C’è invece solo voce e chitarra acustica nell’apertura di Vanilla Sky; il pezzo più avanrti si anima, ma senza perdere una certa serenità di fondo.

Maggiore inquietudine si registra invece in Goodbye,  che si muove su strade più intricate e utilizza campionamenti ed effetti per rendere il percorso ancor più articolato.

God’s Lonely Man si fa più incisiva: tra assoli di chitarra e una batteria che all’improvviso si fa rumorosa ed evidente il pezzo si caratterizza come uno dei più vivi del disco.

Whatever Comes transita attraverso svariate fasi, alzano e abbassando volumi e toni in base a una struttura non rettilinea. Where Love’s Gone si articola su un duetto con un’elegante voce femminile.

My Love apre con un battito intenso e con un’introduzione di elettronica soft (che, a livello di ispirazione, fa pensare in parte a qualche brano dei dischi più recenti di Peter Gabriel). Interessante l’esplosione sonora nella seconda parte del brano.

The Back of Beyond torna ad abbassare il livello di aggressività e a muoversi tra suoni ovattati. E dopo un’altra dose di pop con Part of Me arriva la chiusura, affidata al pianoforte di Angel of Light.

Ci sono spigoli da limare e ci sono sicuramente difetti di crescita in questo disco, tuttavia è difficile non intuire una certa facilità di scrittura. Il tutto associato a una notevole abilità nella gestione del peso dei diversi strumenti e a una certa freschezza complessiva.

Il disco acquista maggiore spessore con l’andare delle tracce, con strutture che si fanno via via più articolate e stratificazioni successive del suono. Se nei prossimi episodi si cercherà qualche esperimento più coraggioso, il progetto diventerà ancora più intrigante.

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