Esce oggi 4 dicembre 2020 il primo album di Kublai, dall’omonimo titolo, un nuovo capitolo del progetto solista di Teo Manzo che segue il precedente singolo pubblicato a settembre, Orfano e Creatore. Kublai è un disco che non nasce come un monologo, un album dialogico, i cui testi percorrono gli scambi di una conversazione in una sera come tante.
«La piena realizzazione di un intento comporta, al fondo, la sua perdita. Questo è il non detto che riecheggia in tutte le stanze di Kublai, un album diviso in tre respiri o movimenti, e composto di arie, più che di brani in senso stretto. Le canzoni, infatti, non coincidono con le tracce del disco, ma vi sono annegate a forza, e solo a tratti riaffiorano dal magma sonoro, con intenzione certamente melodica, ma forma incompiuta. Incompiuta, forse, per non completare troppo in fretta quella perdita.»
Kublai traccia per traccia
Il disco si apre sulle dissonanze di Pellicano, brano che vibra molto e che si stacca per guardare dall’alto. Ci sono tracce di cantautorato ma stravolto e ripensato in profondità.
Ecco poi Orfano e Creatore, il singolo, che frigge più che vibrare, per poi lasciare spazio a sonorità dalle volute ampie e piuttosto aeree. C’è un senso di filastrocca nel cantato, tanto che ci si trova di fronte a qualcosa che assomiglia a un Branduardi sintetico.
Si sale in quota con Nevai, che affronta l’eternità con un certo distacco, anche in senso sonoro. La seconda parte del brano si fa più accorata, intima, forse disperante.
Ecco poi le dinamiche di Cipango, nome antico del Giappone, che fiorisce di intenti elettrici, quasi rockpop, molto Battiato. Molto più “singolo” di Orfano e Creatore, tutto sommato.
Con Lullaby (Ora dormi degli oceani) si esplorano profondità animate, con larghi tratti strumentali e vaghe ascendenze del progressive italiano degli anni ’70.
Può far pensare a Iosonouncane Alla luce, che ha un incedere ritmato, una voce filtrata e passaggi altisonanti, quasi morriconiani. Più tranquilla Le soglie del dolore, che si articola sui suoni di una dolce chitarra acustica, prima che arrivi il cantato, che parla di suicidio, ma sempre con tranquillità e con un senso di ascensione.
Si presenta quasi pop Musa, sorretta dalla frenesia ritmica della chitarra ma capace anche in questo caso di volare in cieli sonori più vasti.
Il finale si allunga con E’ l’ora delle visite, Vincenzo, che ha un passo moderato e un appeal narrativo, salvo poi elaborare piccoli labirinti sonori e deviazioni nella lunga coda finale.
Disco di notevolissimo spessore, l’omonimo di Kublai, che mette a punto una formula sonora ambiziosa e sperimentale, ma senza mai deragliare dal proprio percorso. Il disco è ricco di immagini, pensieri, racconti, ma soprattutto di strutture e progetti portati a termine con sapienza e curiosità. Una scoperta notevole, che sta a fianco del miglior cantautorato “intelligente” degli ultimi anni.

