Già anticipato dal singolo Forgiveness è disponibile su tutte le piattaforme digitali il nuovo album del pianista e compositore Alberto Mancini, un disco dal titolo About Dreams che nasce da un’ispirazione avuta dal musicista mentre era impegnato su alcuni progetti, realizzando che i pezzi a cui stava lavorando dicessero qualcosa in più su di lui, sul suo stile personale e persino su suoi desideri per il futuro.
In questo album c’è quindi molto sullo stile identificativo di Alberto Mancini, che ha avuto la possibilità di registrare la sua musica in uno dei posti migliori al mondo: il Synchron Stage di Vienna, dirigendo con 26 suonatori d’archi.
Ogni pezzo può essere una piccola parte di un sogno, per questo anche il titolo About Dreams: un piccolo mondo in cui far immergere la nostra immaginazione; ma riguarda anche i sogni di Mancini per la sua carriera e i diversi percorsi che la sua musica potrebbe prendere. Questo album è un passo importante in quella direzione, dove Mancini sperimenta diverse tecniche di archi, diversi approcci armonici, microtoni e atmosfere.
Personaggio chiave della scena jazz underground di Milano, siamo contenti di averlo rincontrato in questa nuova veste, compositore di una scena internazionale.
Tra le tue esperienze musicali ti sei mosso spesso nell’ambito del jazz (come nel caso dei Deaf Kaki Chumpy), ma non solo, nel pop (come pianista della cantautrice Leanò), elettronica etc… Ti poni ancora il problema di che genere stai suonando, quando crei musica nuova, da dover poi inevitabilmente collocare nel mercato musicale?
Io adesso sono al novanta percento concentrato a fare musica per altri media. Per cui mi occupo relativamente del mercato in cui questa musica andrà collocata: Il mio compito è fare la musica migliore che posso per il prodotto che lo richiede, che sia esso un film, un videogioco, o una performance artistica!
Per quanto riguarda il disco in uscita, About Dreams, questo è più un regalo che altro per coloro che mi seguono. Certo, è un buon biglietto da visita, essendo registrato in uno dei migliori studi del mondo per quanto riguarda l’orchestra, ma è pur sempre musica “d’atmosfera”, o cinematica, se vogliamo, che ha poco mercato. Mi accontento di quello che verrà. Ma sicuramente non penso principalmente al mercato quando esce un prodotto del genere.
Ora che sei stabile all’estero da un bel po’, hai notato differenze nel modo di suonare e vivere la musica, lontano da Milano e dalle sue dinamiche?
Penso che ogni scena sia diversa, anche perché immersa in un ambiente culturale differente. Quello che ho notato, girando per il mondo, è che una scena musicale ricca debba avere quasi sempre un ambiente molto grande in cui svilupparsi. Le città sotto il milione di abitanti raramente hanno una varietà di offerta culturale che possa sorprendere, e quasi solo nelle capitali europee si può trovare un ambiente artistico in grado di generare qualcosa di nuovo.
Questo perché c’è bisogno di tanti musicisti che suonano insieme per tanto tempo per fare qualcosa che si possa dire “locale”, e quindi che porti una certa novità. E ovviamente deve esserci il pubblico ricettivo a questa novità.
Però sì, rispetto a Milano, Zurigo con i suoi 400 mila abitanti è sicuramente molto povera sia di jazz sia di pop. Ma ha altre qualità che in questo momento me la fanno preferire a qualsiasi altra città. Tipo i contatti e consigli che ho nella scuola delle arti (ZHdK), la tecnologia che ho a disposizione, l’accesso a lavoro molto ben pagato con cui posso viaggiare e farmi conoscere.
Cosa ti manca di Milano?
I miei amici, senza dubbio. Mi manca essere in un ambiente familiare, dove ogni scambio è potenzialmente l’apertura di qualcosa di sorprendente e positivo. A Zurigo non ho questa impressione, mentre a Milano mi basta parlare con un commesso o con una persona a caso sul tram per avere una risposta personale e sincera. Questo mi manca tanto.
Inoltre ho vissuto lì per tanti anni; conosco i locali, i ristoranti, so come si sopravvive e come si VIVE a Milano. Mi piace inoltre la varietà di culture che ci vivono e le comunità diversissime che arrivano da tutto il mondo: penso sia una ricchezza che solo le città un po’ più grandi hanno, e mi piace tanto.
I tuoi pezzi nascono sempre a partire dal pianoforte? E in particolare come è iniziato tutto, se parliamo di questo nuovo disco?
Questo disco è nato da due commissioni che ho avuto: una è un corto di animazione che si chiama Green Hour, l’altro è un documentario su tre collaborazionisti della STASI durante la Repubblica Popolare Tedesca, negli anni 70/80. Molta di questa musica poi non è finita nel documentario, e ho deciso di usarla per creare qualcosa di mio, visto che sono brani a cui tengo tantissimo. Li ho riorganizzati e dato loro un senso che va oltre il brano singolo. Ed ecco qua.
Ti senti mai forzato a essere produttivo e forzato a fare nuova musica?
No per niente. In particolare, nell’ultimo periodo ho solo progetti entusiasmanti e non vedo l’ora di immergermici! Solo cose belle. Manca solo il tempo! Per il resto, solo grande gaso.
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