Pochi giorni fa abbiamo recensito Places Names Numbers, l’ultimo lavoro di Giovanni Ferrario (qui la recensione). Anzi, della Giovanni Ferrario Alliance, che svaria tra atmosfere che vanno dal rock al jazz, passando per numerosi altri caselli e generi. Abbiamo fatto due chiacchiere con Ferrario.
Cominciamo dalla denominazione: perché hai aggiunto quell’ “Alliance”?
Per includere in un progetto che mi sta a cuore i musicisti e i fonici che hanno lavorato a questo disco, ma anche i pochi (ma buoni) amici che in modo diverso mi hanno confortato e spronato negli ultimi anni.
Mi sembra evidente lo “sforzo” di cambiare, anche radicalmente, le atmosfere sonore da un brano all’altro del disco. Vorrei saperne qualcosa di più a proposito del tuo metodo di composizione e vorrei sapere anche se è stato un progetto pianificato a tavolino oppure se le canzoni sono cresciute spontaneamente così…
Non c’è un progetto definito a tavolino e non ho fatto uno sforzo per cambiare o variare il modo dei pezzi e far sì che il disco fosse per questo più intrigante. Anche da ascoltatore mi piacciono gli album di ‘genere vario’, quindi mi muovo anch’io sempre i questa direzione. I dieci brani che compongono Places Names Numbers sono stati scelti da WWNBB tra una rosa di venti brani che a loro volta erano la mia scelta tra tutte le mie cose scritte negli ultimi sette, otto anni.
Compongo sempre di getto, musica e parole. Tento di rimanere fedele all’idea da cui parto e ciò mi risulta abbastanza facile, forse perché associo sempre musica a immagini e colori, facili da ricordare.
Hai avuto modo di lavorare con artisti internazionali di prestigio assoluto. Vorrei sapere che cosa ti hanno lasciato queste esperienze.
In tutta sincerità, non è che io faccia troppe differenze tra musicisti internazionali e musicisti italiani. Ciò che mi serve e che tento di imparare dagli altri è quello che non ho già dentro. Ovvio che avere la fortuna di stare sul palco con uno dei migliori suonatore di Nguni del Mali è qualcosa che lascia il segno e magari si sente anche nel mio lavoro.
Come nasce “Costa”, che chiude l’album?
Costa è stata scritta da Robert Wyatt e Alfreda Benge, in un periodo in cui la coppia viveva in un paesino dell’Andalusia. Il testo, in maniera molto semplice e lieve, fa riferimento a quel luogo e a quel periodo della loro vita. Per questo mi è parso che potesse inserirsi bene nel mio album. Molti sanno che sono un grande appassionato della musica di Wyatt, quindi è stato facile per me riproporre con dei musicisti un brano che stavo studiando al piano; forse un esercizio vocale un tantino azzardato per il sottoscritto, ma all’autore è piaciuto quindi l’ho pubblicato.
Puoi raccontare la strumentazione principale che hai utilizzato per suonare in questo disco?
Mi fa piacere mettere mano a tutti gli strumenti e da una decina d’anni ormai, da quando il piano della mia amica Caterina è nel mio soggiorno, preferisco comporre con quello. Non credo proprio che per questo motivo si possa parlare di un disco di un pianista o cose del genere. Places Names Numbers è un album relativamente semplice. Ci sono parecchie chitarre elettriche, molta roba percussiva e qualche tastiera.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimi di più in questo momento e perché?
Non credo di poter fare qui un elenco di amici che stimo e con i quali magari anche collaboro. Come dicevo prima a me piace ascoltare degli album musicali che hanno un senso compiuto, un’urgenza che non risulta essere soltanto espressione della vanità degli autori o peggio una strizzata d’occhi a quello o quel settore del mercato (‘mercato’ con sette virgolette). Non sono in molti quindi quelli in grado di soddisfare la mia curiosità. Mi divertono i Winstons e ultimamente ho ascoltato con piacere anche il disco di Valeria Sturla e Vincenzo Vasi ‘Ooopopoiooo’.
Puoi indicare tre brani, italiani o stranieri, che ti hanno influenzato particolarmente?
‘Shipbuilding’, ‘1969’, ‘Bittersweet Symphony’.

