Undici tracce da cantautore “classico”, anche se non troppo solitario: Andrea Arnoldi e il peso del corpo hanno realizzato Le cose vanno usate le persone vanno amate, un lp con buone percentuali di chitarra acustica e di sensibilità letteraria (qui la recensione). Ecco la nostra intervista.

Hai impiegato due anni per arrivare a ” Le cose vanno usate le persone vanno amate “: puoi raccontare come è andato il percorso di scrittura e realizzazione di questo disco?

Dopo Un mondo perfetto c’è stato un lungo momento di arresto nel percorso del peso del corpo. Non ero soddisfatto delle atmosfere di quel disco e non riuscivo a trovare la modalità giusta per portarlo nei locali e farlo apprezzare al pubblico.

Alla fine ho pensato che era meglio far decantare le emozioni del momento e prendere una pausa, che è durata quasi due anni. In questo periodo di tempo ho continuato a scrivere canzoni, sentendomi totalmente libero di poter sperimentare nuove sonorità e una sintassi musicale diversa.

Questi brani mi piacevano e a un certo punto, quasi per caso, ho pensato che sarebbe stato positivo inciderli e mi sono messo alla ricerca di musicisti che avessero voglia di accompagnarmi.

Ho conosciuto Leonardo Gatti, violoncellista e arrangiatore delle parti per gli archi, e nel giro di un altro anno avevamo una dozzina di tracce pronte.

Siamo andati in una casetta di montagna nelle nostre valli, il nostro fonico ha montato uno studio mobile in una stanza di legno al piano più alto e, guardando i boschi e le colline, abbiamo registrato il disco.

Un disco che ha la morte come, diciamo così, fil rouge: puoi spiegare i motivi?

Non credo debbano esserci per forza motivi. Semplicemente è quello con cui ho avuto bisogno di confrontarmi in questi ultimi anni.

Dal punto di vista musicale mi sembra un disco contrassegnato soprattutto dalla curiosità di sperimentare con strumenti di varia natura. Come sei arrivato alla scoperta e all’utilizzo di tutti questi strumenti (e degli strumentisti che suonano con te)?

Se ascolti musica tutto il giorno ti fai un’idea del timbro sonoro che vorresti dare a una certa canzone e cerchi in tutti i modi di andarci il più vicino possibile.

Così mi sono messo alla ricerca delle sonorità di cui credevo avessi bisogno, e ovviamente della gente che le sapesse creare. Spesso ho cambiato idea, e altrettanto frequentemente ho abbandonato gli stereotipi che avevo sul timbro e sull’atmosfera di certi strumenti.

Questo credo sia stato possibile grazie alla bravura e al sentimento che contraddistinguono ognuno dei miei musicisti, che non riuscirò a ringraziare mai abbastanza. in fondo, sono stati capaci di dare un suono reale alla musica che avevo in testa… Da solo non ne sarei mai stato capace.

Mi incuriosisce molto “L’ortica”, che hai anche scelto come singolo: qual è la genesi della canzone?

L’ortica nasce da due testi che mi stanno molto a cuore; il primo è I cigni selvatici, fiaba capolavoro di Hans Christian Andersen, l’altro è Il tempo materiale, romanzo di Giorgio Vasta altrettanto bello.

Credo che la divisione in due parti legate ma allo stesso tempo ben distinte venga anche da qui. E’ una ballata veloce che tenta di dare un senso al tempo che ci passa addosso e cerca di tenere lontana la morte, ma a metà si spoglia di tutto diventando un blues scarno e irrequieto sul senso etico e politico che ha questo tentativo.

L’ortica è un’infestante che avvolge e circonda, ha in sé il concetto del tempo e il senso della caducità di ogni cosa; senza far rumore, non te ne rendi conto ma misteriosamente si è presa anche il fiore.

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