L’intervista: Nelide Bandello, dosi di istintività e disordine #TraKs

Un disco jazz che suona rock, o viceversa: Bar Tritolo (qui la recensione) è il nuovo lp realizzato da Nelide Bandello, batterista ma anche musicista a tutto tondo, che ha risposto alle nostre domande.
Come nasce e in che atmosfera è stato realizzato “Bar Tritolo”? Mi puoi spiegare anche il titolo, che è anche quello di una delle tracce del disco?
Il progetto è nato alcuni anni fa, attorno a una manciata di composizioni che avevo scritto e che mi sembravano offrire una direzione diversa da quella più orchestrale del mio quintetto Leibniz.
Volevo un organico numericamente più leggero ma più aggressivo e la scelta di coinvolgere Enrico Terragnoli e Piero Bittolo Bon (musicisti che ben conoscevo) si è rivelata azzeccata.
Successivamente ho scritto gli altri brani con un’idea più precisa del potenziale del gruppo.
C’è stato poi un periodo difficile, in cui la delusione ha fatto sì che tutto sia rimasto nel cassetto, credo però che questo fosse per me il momento di fare questo disco.
Non so se sei mai stato in un Bar Tritolo, forse sì, è un luogo universale, sembra un bar disegnato da Scòzzari, pieno di freaks, bevuti, rumoraccio di voci e disordine.

Quanto c’è di improvvisato e quanto di “scritto” prima di entrare in studio nella musica di questo album?
Non saprei farti una quantificazione percentuale, come avrai notato ci sono sia ampie sezioni improvvisate sia temi scritti e riff, cose che andavano provate necessariamente prima.
Tuttavia non abbiamo voluto sfinirci di prove prima di registrare, ci tenevo a conservare una dose di sporcizia, istintività e disordine, perché fa parte dell’immagine sonora che avevo in testa e forse anche di un mio ideale esistenziale/estetico/ecologico.
Ho sentito qualche tempo fa il concerto dei superstiti Nirvana alla Rock and Roll Hall of Fame… ho trovato in un certo senso oscena la precisione del suono e la pulizia delle esecuzioni, in confronto ai live di un tempo mi sembrava di avere davanti il gruppo di Avril Lavigne, mi dispiaceva per loro.
Ecco, non so se riesco a spiegarmi, ma sembra che tutto sia pop di plastica ormai, anche il rock e il jazz e daltronde se gli stilemi punk sono diventati glamour da un pezzo non sto facendo una grande scoperta.
Magari no, però è bene ribadirlo ogni tanto… Da dove nasce la scelta di dare al disco un suono, diciamo con una certa approssimazione, piuttosto “rock”?
Volevo evitare un altro tipo di incidente piuttosto frequente in questi anni: molti giovani jazzisti frequentano spesso un songbook che attinge al rock in senso lato e quando registrano le loro versioni di questi brani lo fanno in studi e con set ups da jazzisti, in questi casi i suoni sono orribili alle mie orecchie.
Il suono corrisponde a un gesto, a un’intenzione, a un modo di sprigionare l’energia che secondo me sono parti integranti di quella musica. Questo, almeno, è il modo che ho io di intenderla.
Aggiungo che con Andrea Cajelli (conosciuto al suo studio La Sauna durante le registrazioni del gruppo Rocky Wood) era stato molto bello lavorare e mi ero promesso di rifarlo al più presto, sia per il gusto del suono che condivido, sia perchè è una persona che mi piace.

L’uso dell’elettronica è molto limitato nell’ambito del disco: il suo utilizzo è stato dettato da esigenze particolari all’interno di “Svegliati, cazzo!”?


Rispondendo a questa domanda torniamo un po’ al punto 2. Quella che senti è una delle due takes fatte in studio, sono piuttosto diverse, specialmente nella sezione introduttiva che è stata improvvisata da Enrico.

Questo genere di scelte varia di volta in volta, anche durante i live. L’esigenza è quella del momento, è un’esigenza espressiva di chi suona, non di chi scrive il brano e sono contento se i miei compagni di viaggio si sentono liberi di usare oggi suoni elettronici e domani le maracas o un feedback devastante.

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