Dopo qualche aggiustamento della lineup, gli Amycanbe si sono messi al lavoro sul proprio terzo album: si chiama Wolf, contiene undici tracce e il missaggio è stato affidato ancora una volta a Mark Plati (che ha lavorato con David Bowie, Prince, The Cure).
Fin qui i dati oggettivi: la sostanza del disco regala sonorità eteree ma non incorporee, un mood complessivo malinconico, e l’ormai abituale vocazione internazionale, marchio distintivo della band.
Amycanbe traccia per traccia
La partenza, con Grano, è piuttosto ragionata: il brano fa giri lunghi e meditativi, con echi di elettronica anni Novanta. Nonostante il titolo, la canzone è cantata in inglese, come il resto del disco.
Ritmi sempre molto morbidi in I Pay, almeno sulle prime: ma dopo una lunga parte che vede comunque anche la partecipazione della chitarra, ecco una seconda parte che si anima improvvisamente, come se la festa si fosse spostata da un lounge bar a un club alla moda.
Wherefrom sceglie strade diverse, più propense all’indie, con la voce gentile di Francesca Amati che si trova impegnata in un corpo a corpo con sonorità invece piuttosto potenti.
Ci sono suoni e ritmi strutturati in modo curioso, all’interno di Fighting, che tiene a bada qualche tentazione sinfonica, la mescola con elettronica minimalista e gioca per tutto il tempo con i contrasti.
5 is the number procede a passo temperato, con un impeto crescente man mano che la canzone procede. Wolves, la quasi title track, inietta qualche sensazione ottimista, in un contesto che può ricordare i Blur di Out of Time.
White Slide mantiene l’abituale compostezza, ma accentua le sensazioni di chiaroscuro. Molta delicatezza anche in Bring Back the Grace, che alterna parti piuttosto minimaliste a discorsi più strutturati, aggiungendo anche in questo caso una coda quasi disco.
Altro episodio con titolo in italiano è Febbraio, in cui il sottobosco elettronico è particolarmente animato e gradatamente trascina con se tutti gli elementi del brano.
Queens ha un ingresso piuttosto massimalista, almeno per i parametri del disco, con percussioni in evidenza e suoni non così moderati. Certe tensioni si sciolgono durante il percorso, ma il pezzo suona quasi mainstream.
Si chiude con Orata, di cui è incerto se si parli dell’omonimo pesce o se sia il participio passato femminile di ōro, ōras, oravi, oratum, ōrāre. In ogni caso il brano si permette digressioni importanti con chitarre psichedeliche, in un’ultima pennellata strumentale.
Si dice spesso “cura dei particolari”, ma in questo caso non è un modo di dire: sembra che tutti i suoni dell’album siano stati centellinati, osservati alla luce giusta, assaporati in purezza.
Il risultato è un disco maturo, che ha un passo importante. Può essere pop, può essere elettronica, può essere indie oppure no: al di là delle definizioni, è un disco che vale la pena di ascoltare. Meglio se più di una volta.
[…] “Wolf”, Amycanbe: la recensione […]