The Zen Circus: Avere vent’anni oggi è veramente un casino, soprattutto se suoni

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C’è una band che da una ventina d’anni e più incarna, ma proprio nel senso che vive nella carne, la musica indipendente italiana, a prescindere da etichette, rapporti con le major, Sanremo e menate varie: gli Zen Circus sono sempre il faro a cui ci si rivolge, soprattutto in tempi di eterna tempesta (pardon, “bomba d’acqua”) come questi.

E per fortuna ci sono e fanno ancora dei dischi lucidi ma arrabbiati come Il male, uscito una ventina di giorni fa, che riporta indietro il tempo di qualche anno sia dal punto di vista sonoro, sia da quello dei testi, che trasudano la voglia di comunicare quanto si faccia fatica a vivere oggi, ma anche quanto possa essere positivo e vibrante, a patto di trovare le motivazioni giuste.

In passato abbiamo intervistato la band per intero o a brani, ma mai ci era capitato di chiacchierare in solitaria con Karim Qqru, che siede dietro le pelli e partecipa in modo decisamente attivo a tutte le fasi di scrittura e composizione della band, dal 2003. Ecco il risultato delle chiacchiere che ci siamo fatti al telefono.

Partirei dalle premesse del disco e ti faccio una domanda che per certi versi è retorica, però mi piacerebbe sentire la tua su questo. Avete una dozzina di album alle spalle, grandi successi, pubblico fedelissimo, niente da dimostrare, la riconosciuta posizione di band di riferimento di tutto un movimento indipendente, eppure sembrate ancora, come dire, belli incazzati. Vorrei sapere che tipo di moventi ci sono alla base di questa incazzatura e naturalmente del disco. 

L’incazzatura credo che sia quel calcio in culo che abbiamo preso tutti e tre quando avevamo 14 anni, chi in un modo e chi l’altro, dalla scoperta della musica come modo fondamentalmente per ritrovare se stessi. Questo è quello che è successo a tutti e tre a 14 anni, chi con il punk, chi con il grunge, chi con il metal, o almeno a modo suo. Quella che poi è diventata una comunione d’intenti quando abbiamo iniziato a suonare insieme, con questa formazione ormai 23 anni fa. 

La spinta è sempre la stessa, non lo dico per piaggeria, ma perché è quello che ci riesce meglio ed è il luogo sacro della sala prove, quando siamo insieme, che poi si riverbera su quello che facciamo. Per questo disco sicuramente è partita una molla diversa rispetto agli altri album, un po’ perché eravamo fermi discograficamente da cinque anni, perché Cari fottutissimi amici non l’abbiamo mai messo nel novero della discografia classica degli Zen, perché ha avuto proprio una nascita, una scrittura, uno sviluppo proprio diverso rispetto a come scriviamo gli album.

Un po’ questa pausa, che era prevista, di due anni dai palchi e di tre anni dalla discografia, quando abbiamo iniziato a trovarci in sala prove nell’ottobre del 2023, un paio di mesi dopo la fine del tour, avevamo in testa di fare un disco come lo facevamo ai tempi: quindi chitarra, basso, batteria, sala prove, nessuna preproduzione fondamentalmente, nessun provino. Partire da quello e fare un disco come forse l’ultimo che abbiamo fatto così, Nello Scarpellini, perché comunque Villa Inferno aveva già una produzione diversa, Andate tutti affanculo è stato un disco registrato in nove mesi, Nati per subire è un disco molto più patinato.

Forse la cosa più simile è Canzoni Contro la Natura, è stato forse l’ultimo registrato in questo modo. Volevamo fare un disco senza quantizzazione, senza samples sulla batteria, senza Melodyne, un disco in sala prove fondamentalmente, nel senso buono, come se fosse il 1993, mettiamola così, e sicuramente questa cosa qua poi si è legata a doppio filo con tutta la parte tematica e testuale che ha tirato fuori Andrea e che poi si è sviluppata in modo molto naturale. 

foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

Infatti credo che tutto questo processo si senta benissimo, nel senso lo si avverte molto bene dal vigore delle canzoni, dalla forza e appunto dalla rabbia, da questo “tirare fuori il male”. Mi è piaciuto molto il concetto che è uscito da un’intervista che avete fatto con Rolling Stone, in cui dicevate sostanzialmente, che la gente si lamenta che non si può più dire niente, ma la verità è che non si può più parlare del male, del dolore, della sofferenza, perché dobbiamo essere tutti vincenti, stiamo tutti benissimo eccetera eccetera. Voi avete puntato esattamente sull’opposto, mi pare di capire. 

Sì, tra l’altro è abbastanza inquietante questa cosa, perché il tratto credo più spaventoso è che si sta canalizzando anche tutto quello che un tempo era catartico, il malessere: deve essere patinato anche quello, deve essere tutto a forma di Tiktok, deve essere tutto in una via che comunque può dare il fianco all’algoritmo, e soprattutto la cosa per me più sconvolgente è stato veder mettere la morte, il lutto, la sofferenza sotto il tappeto, soprattutto da un periodo come quello del covid quando, volente o nolente, la gente forse ha vissuto per la prima volta la morte di persone care.

Così io pensavo che la cosa ci portasse un po’ di quel soffio ancestrale nel quale la morte e la vita sono legate e sono accettate, perché sono qualcosa di ineluttabile, e invece è successo l’esatto contrario, invece è qualcosa che deve stare lontano e addirittura le policy interne ti mettono in shadowban se metti certe foto. Poi puoi tirare fuori argomenti veramente inerenti al male e non ti rompe le scatole nessuno.

Quindi a me personalmente questa cosa ha toccato molto perché è come se ci fosse stato una specie di blackout davanti al covid. Quando è stata rimessa la corrente c’è stata una bonifica di tutto quello che può turbare e deve essere tutto canalizzato in una forma che in tempo si diceva “instagrammabile”, ora è più di instagrammabile, ma che sia fondamentalmente a prova di reel, a prova di filtro.

Ed è sconvolgente perché poi vedi qualcosa di schizofrenico quando apri Tiktok o qualsiasi social, poi scrolli col dito e a volte ti sembra essere in un mondo irreale, sei in un mondo in cui hai comunque una situazione geopolitica, una situazione dell’Occidente che è in ginocchio dal punto di vista psicologico e psichiatrico, è come se ci fosse qualcuno che fa luce costantemente, nel mentre uno pensa alla morning routine, ai cinque modi di struccarsi. Una roba per me folle. 

Abbiamo sempre preferito gettare dei “semini”

Mi riallaccio alle tue ultime osservazioni: nel disco non ci sono delle canzoni apertamente politiche anche se i riferimenti al contemporaneo saltano fuori ovunque come sempre con voi. Ma vista la situazione nazionale e internazionale, non vi è venuta voglia di essere ancora più espliciti e di tirar fuori di più, diciamo dal punto di vista testuale? 

Noi abbiamo sempre preferito gettare dei semini e far riflettere il pubblico, anche perché credo che sia molto rischioso quando i temi politici vengono sviscerati a mo’ di manifesto nelle canzoni. Perché comunque volendo o non volendo non c’è una discussione, tu poni qualcosa senza avere per davvero un dialogo con il pubblico, che invece può avvenire quando getti dei semini per una riflessione.

Anche perché noi abbiamo tantissime domande, ma risposte purtroppo non ne abbiamo nemmeno con noi stessi, figurati. Però questo album ha un brano, personalmente il mio preferito del disco, che forse è il testo più cattivo, nero, mai scritto e mai venuto fuori da un disco degli Zen, che tende un po’ a riassumere tutto a 360 gradi, non soltanto la politica, ma anche a riflettere anche su noi stessi, sulla nostra posizione di occidentali nel ventunesimo secolo, con tutte le contraddizioni possibili.

Al bene artificiale io preferisco il male“: tra l’altro è uno dei brani venuti fuori in modo più naturale e più diretto di tutto il disco, è stato messo anche come apertura e come title track, ed è un po’ il manifesto d’intenti dell’album. 

Capisco bene. Ora però vi cito: “I rivoluzionari che ho conosciuto a vent’anni o sono morti o si sono messi d’accordo sui soldi”, cantate in Vecchie troie. Voi dove vi collocate fra i due estremi dello spettro? 

Conta questa cosa qua: io sono del 1982, Andrea del ’78, Ufo del ’72, io e Ufo abbiamo dieci anni di differenza, io e Andrea quattro anni, quindi abbiamo avuto vent’anni in momenti diversi, io avevo vent’anni quando sono entrato negli Zen, per farti un esempio. Le Vecchie troie, che poi siamo noi, è una grande critica a noi stessi anche a vent’anni, a questo grande tema del passaggio generazionale, è una riflessione anche sulla generazione X, la tanto vituperata e dimenticata generazione X. 

Guarda, io te lo dico da persona che ha fatto il G8 di Genova, io come tanti altri che erano con me, dopo quella manifestazione abbiamo smesso di andare alle manifestazioni per esempio. Sicuramente c’è questa grandissima riflessione molto amara, perché comunque quando fai 40 anni, quando hai due volte vent’anni, hai il tempo per guardarti indietro e capire veramente la tua vita negli ultimi decenni, hai quello spazio per poter dare una visione che è più totalizzante e anche totalitaria, nel senso che sei spietato, è totalizzante da voler dare giudizio su te stesso.

E abbiamo fallito, abbiamo fallito miseramente, quindi a me fa anche un pochino ridere questa grande critica nei confronti dei ventenni di oggi: io il me di vent’anni l’avrei preso a testate nel naso, guardandomi indietro. Quindi questa grande critica contro la generazione di oggi credo che sia, non dico sterile, perché è sempre bene se fa nascere una riflessione, però dovremmo anche ricordare come eravamo noi a vent’anni e smettere di idealizzare e di rendere romantico tutto quello che abbiamo fatto quando eravamo a quell’età.

Di tutto quel movimento che sembrava dover incendiare il mondo, e io ti parlo al tempo di quello che era il movimento no global, l’ultimo movimento che c’è stato prima di tutto quello che sta rinascendo (spero) oggi, che poi si è spento totalmente, ha fallito totalmente, nel modo credo anche più bieco possibile, perché poi è stata una grandissima vampata che purtroppo poi si è sciolta nel giro di uno o due anni. Sicuramente il G8 ha aiutato veramente tanto, nel senso che è stata una mazzata disastrosa e tra l’altro è stata anche una sorta di fine dell’innocenza. 

foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

Da coetaneo di Ufo condivido pienamente, posto che credo che ci siano anche state manovre eterodirette a spegnere anche quel tipo di movimento. 

Io sono convinto di questa cosa qua, perché stava facendo paura, soprattutto a Genova. La cosa spaventosa per chi stava dall’altra parte, era vedere che c’erano i cattolici, c’erano comunisti, c’erano anche gente di estrema destra, e hanno manganellato tutti. Io sono stato salvato la prima giornata, pensa alla follia di questa cosa qua: mi hanno sfangato di manganellate, stavo rimanendo solo davanti alla carica, mi ha salvato un energumeno con una celtica tatuata sull’avambraccio che mi ha preso, caricato sulle spalle e portato via.

E io sicuramente non sembravo un camerata, e quella roba là chiaramente all’ordine costituito spaventa tantissimo, al tempo spaventò tantissimo, perché era il vedere un’unione, unilaterale, che è l’unico modo per fare veramente tremare le ginocchia allo Stato, che in quel momento là stava affrontando forse la crisi più grande, la prima crisi più grande dal ’77. 

Un filo rosso tra diverse classi sociali

Torno sul discorso musicale e però rimango su questioni, se vogliamo, da boomer. Secondo te com’è successo che mentre le nostre generazioni canalizzavano in musica la propria sofferenza verso genere come il rock, il pop, il blues, che sono tutte espressioni di sofferenza per certi versi, i ragazzi di adesso guardano più alla trap o al pop andando verso un genere, che da questo punto di vista sono un po’ più privi di sostanza?

Guarda, io ho avuto un percorso strano musicalmente perché sono arrivato al rock tardi, nel senso che sono partito dal metal e poi ho scoperto il jazz, ho scoperto Frank Zappa, quindi io quando sono entrato negli Zen, per esempio, ero un grandissimo fan delle band della SST Records, della Discord, però conoscevo molto di meno, per esempio, tutta quella scena come i Pixies, fondamentalmente l’indie rock, quando il termine indie rock aveva un senso che oggi non ha più, però ho sempre ascoltato anche hip pop, ascoltavo anche l’elettronica, quindi sono cresciuto in un mondo in cui c’erano tutte le sottoculture che a volte si mischiavano, ma c’era un forte spirito identitario. 

Oggi ho un figlio di 13 anni, quindi vedo cosa ascolta: oggi la trap ha un significato che è leggermente diverso da quello che potrebbe essere stato per noi ascoltare grunge, ascoltare punk, ascoltare metal. E’ una specie di metro di giudizio, e soprattutto è un modo per avere non soltanto qualcosa in comune di cui parlare, ma è come se fosse una specie di filo rosso che tocca tutte le classi sociali di questa età qua e vedi che c’è quello che ha 8 di media, è bravissimo a scuola, che ascolta trap, e magari c’è quello che vive nelle case popolari, con una situazione familiare complicatissima, che ascolta musica trap.

È come se fosse una carta indispensabile da avere in età puberale e in età adolescenziale, con oggettivamente dei contenuti quasi inesistenti. Io sono cresciuto anche ascoltando l’hip hop italiano, Il TruceKlan, Noyz Narcos, tutta quella scena che al tempo era schifata anche dalla prima ondata del hip hop degli anni ’90, rispetto ai contenuti testuali della trap sembra geniale, però non bisogna fare lo sbaglio da boomer di non analizzare questa cosa qua.

Perché il 13enne ha bisogno di ascoltare oggi e di essere dentro un movimento, perché è un modo per essere in comunicazione con i suoi coetanei, ma soprattutto non capiamo come va a stimolare quel super io da “spacco tutto”, egotico, da super eroe che hai, quando hai quell’età là.

E io mi rendo conto che c’è una grossa divisione: c’è chi ci crede a quelle puttanate e chi invece riesce a capire, come quando io ascoltavo, e ascolto tutt’oggi, gli Slayer. E’ come un fumetto, è come se fosse una roba da cosplay, ti metti quest’armatura addosso in cui sei il ragazzo cattivo, usi una serie di terminologie tremende, però è del tutto diverso dalla funzione che aveva per noi il rock, il punk, il grunge, c’era un’identificazione che era anche da sottocultura, nelle scuole superiori c’era il gruppetto che ascoltava i Nirvana, erano persone che stavano tutte insieme, poi facevano una band.

Questa cosa non c’è più, anche perché c’è un discorso proprio egotico, di dimostrazione di valori che sono contrari a quelli delle sottoculture e delle contoculture musicali, e cozza tremendamente, è l’esacerbazione dei valori odierni, del soldo, del potere, della sopraffazione, ideali cardine legati al capitalismo e all’individualismo che sono i due grandi valori degli ultimi 20 anni, l’individualismo e il capitalismo, i soldi, e lo spaccare il culo a tutti, è una roba abbastanza drammatica, però va analizzata, perché a metterla sotto il tappeto non è che ci rimane davvero, sotto il tappeto. 

Avventure soliste

Il Male arriva dopo l’ultimo disco di Appino, Humanize: per curiosità, come avete vissuto la nuova sua avventura solista e ci sono state differenze rispetto ai suoi dischi precedenti?

Adesso noi con gli Zen abbiamo delle tempistiche lunghe di progettazione; quando avevamo deciso che avremmo fatto Cari fottutissimi amici sapevamo già che avremmo fatto un tour e poi una pausa. Io dovevo fare le sonorizzazioni, avrei fatto Nosferatu e Metropolis con Xavier, Roberta e Corrado, e Andrea avrebbe fatto questo disco, sul quale ha lavorato tantissimo. Ha fatto tutto un percorso di ricerca che partiva dalle interviste che ha messo come skit. 

Un disco a cui lui teneva tantissimo, molto particolare: io lo vedo come un disco degli anni ’70 fatto nel 2023. E ha fatto, secondo me, la cosa più giusta possibile, ovvero fare qualcosa di diverso dagli Zen, anche perché altrimenti non ha senso fare dischi solisti. I progetti paralleli hanno senso quando fai qualcosa di diverso; però sai, sentendoci ogni giorno, anche quando non siamo insieme, ci si passa i provini, ci si passa il rapporto totale tra tutti e tre.

Per noi è una cosa per noi normale, però ci rendiamo conto, quando ne parliamo, che spesso non è vista come normale. Non essendoci in noi nessun tipo di invidia, essendo amici, abbiamo bisogno di fare cose parallele agli Zen, che fanno bene in primis agli Zen. Ci rendiamo conto che alcune volte può essere straniante, soprattutto per altre band.

Però per me è sempre stato davvero naturale, nel senso che dopo Nati Per Subire eravamo in tour da cinque anni e volevamo prenderci una pausa per fare un disco importante dopo e io stavo scrivendo i pezzi della Notte dei lunghi coltelli, Andrea stava scrivendo Il Testamento, Ufo voleva andare in giro a fare i dj set, è una cosa normalissima, però ci rendiamo conto che a volte non viene vista come normale. Essendoci sempre meno band in Italia c’è una visione molto solista, c’è sempre questo spauracchio che quando uno fa il disco solista la band si è sciolta, e noi nonostante avessimo chiuso il tour dicendo: “Ci vediamo tra due anni”, c’era la gente che era spiazzata…

In effetti di solito quando faccio questo tipo di domanda mi rispondono “Molto bello il suo disco, aveva bisogno di questo tipo di pausa, ma per noi non c’è problema…”, le classiche risposte un po’ ingessate, un po’ imbarazzate del tipo: “Mi stai chiedendo se ci stiamo sciogliendo?” Ovviamente con voi non c’era questo tipo di pericolo, però tu mi hai dato una risposta molto più come dire partecipata…

Noi ci conosciamo da tantissimi anni, veramente da tanti anni, io Andrea l’ho visto la prima volta seduto sul tronco all’ingresso del Macchia nera nel 1996, si parla di 30 anni fa, lui 14 anni, io 18 anni, ci conoscevamo già prima di suonare insieme, e sviluppi un rapporto per il quale secondo me o scoppi e ti mandi a fare in culo, oppure…

Poi sarà che non c’è mai stata questa roba egotica, non so come spiegartelo, noi abbiamo sempre veramente fatto il tifo l’uno per l’altro, ma in modo vero. Io ricordo che quando Andrea vinse il Tenco con Il testamento che era un disco bellissimo, eravamo felicissimi; però mi rendo conto che non è semplice, dipende da che vissuto hai, perché se non sei cresciuto insieme magari non succede. Prendi i Police, mica erano amici… Non lo erano i Minutemen o gli Hüsker Dü… Però io non ci ho mai visto niente di male.

E i tuoi progetti solisti?

La cosa più bella che sto facendo ultimamente è Metropolis, la sonorizzazione del film del 1926, che è un po’ il seguito ideale di quello che ho fatto negli ultimi due anni, che avevamo fatto con Nosferatu, con Xabier Iriondo e Corrado Nuccini. Siamo andati avanti perché volevamo fare qualcos’altro insieme, abbiamo fatto Metropolis e abbiamo chiamato un’amica e una grande bassista che è Roberta Sammarelli dei Verdena, abbiamo fatto insieme questa cosa che è andata meglio del previsto.

Le sonorizzazioni sono qualcosa di molto bello, che io faccio da anni, ma molto di nicchia: si suona mediamente davanti a 30-40 persone. Invece già con Nosferatu si era capito che era una cosa diversa: mediamente le sonorizzazioni hanno un largo lato di improvvisazione, mentre invece è proprio un concerto e poi è uscito anche un disco che sta andando bene, ci sono quasi tutte date sold out, è qualcosa che non è scontato.

E poi a lato la cosa che faccio da anni che sono gli Ambient Files Dirt Tapes, tutta roba analogica di musica ambient, con le mie grandi ossessioni come ispirazioni, che sono Klaus Schulz, Tangerine Dream, Steve Roach Brian Eno, la Space Music, quella che veniva chiamata Cosmic Music, l’ambient, che è uno dei generi che ascolto forse da più tempo, da quando avevo 14 anni.

E’ una cosa molto piccolina, che faccio uscire solo in cassetta, però ecco, diciamo che avendo la fortuna di poter fare questo come lavoro, posso svegliarmi la mattina comunque e sapere che di lavoro suono, quindi posso dedicarci tutto il tempo. So che è una grande fortuna, perché comunque non basta la bravura, ci vuole anche tanto culo! Sicuramente ci siamo fatti tantissimo il culo, però c’è stata ovviamente anche la componente di fortuna che è innegabile, che secondo me è qualcosa di inscindibile, soprattutto quando fai il musicista nella vita.

Fortuna decisamente meritata, però in effetti hai le tue ragioni sicuramente.

foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

Suonare dal vivo oggi in Italia: storia di un disastro

Parliamo di live, ma in modo un po’ generale: voi non avete di questi problemi, visto che avete costruito negli anni un pubblico affezionato che vi segue tantissimo anche dal vivo. Ma come vedi la situazione della musica live in Italia in questo momento storico? 

E’ oggettivamente disastrosa. Noi abbiamo la fortuna di avere un pubblico che tra l’altro è in crescita organica lenta ma costante soprattutto dal 2016, che ci permette di poter scegliere dove suonare fondamentalmente. Ma io mi metto nei panni di uno che ha 20 anni ora. La gente si lamenta: “Quello è andato a X Factor“. Ho capito amico: te c’hai 40 anni, c’erano 200.000 locali in Italia quando avevi 20 anni… Io non apprezzo i talent, non li vedo, non è un qualcosa che fa parte del mio modo di vedere la musica, però cazzo mettiamoci nei panni di chi ha 18-20 anni: dove vai? Cioè dimmi dove vai, anche quando si fa i discorsi: ah perché bisogna farsi la gavetta. Ho capito: dove la fai la gavetta? Io ricordo solamente questa cosa qua: noi nel tour di Andate tutti affanculo in quattordici mesi abbiamo fatto centoquarantotto date!

Impensabile oggi assolutamente.

Non ne fai nemmeno la metà ora, forse nemmeno un terzo. 

Ma manco se sei i Maneskin riuniti 

Non ci sono più posti, purtroppo è successa una cosa in Italia che è successa in modo molto minore fuori dall’Italia: ovvero esistevano tutta una serie di locali piccolini, dalle duecento alle quattrocento persone. Locali nei quali la gente andava a prescindere a vedere la musica, non è che andava a vedere la band. Io mi ricordo solamente a Brescia, faccio questo esempio perché è una roba allucinante in positivo, a Brescia c’erano nel 2008 c’erano otto locali. Le province pullulavano di questi club da 200 a 400 persone e te là ti potevi fare le ossa e costruiti un pubblico, e così abbiamo fatto.

Suonando, spesso di fronte a venti persone, o trenta o quaranta. Poi magari facevi un bel concerto in quella città, ci tornavi dopo sei mesi e c’era il 30% di pubblico in più. Ci tornavi la volta dopo e c’era un altro 10%, e così ti costruisci un pubblico. Ora come fai?

Quindi anche quando ci chiedono: che consigli dareste? Io ti posso dare tutti i consigli che ti pare per la mia esperienza. Ma la mia esperienza parte da un imprinting di un mondo che non esiste più. Quindi quello che diciamo sempre è: cerca di dare un’importanza non maggioritaria a tutta la parte esteriore, i canali social eccetera. Devi anche suonare. Che tu faccia elettronica, metal, punk, neo soul, quello che ti pare. Suonare il più possibile. Poi chiaramente curare anche la comunicazione, ma non dare priorità a quello.

Però il problema è che o vai a suonare per strada, ma non è qualcosa che puoi fare sempre… Noi abbiamo avuto il culo perché noi facevamo rullante spazzolato, basso acustico e chitarra acustica. Ma se fai un gruppo alla Converge o tipo Fela Kuti non è che puoi montare gli strumenti in mezzo alla strada.

Quindi è un casino e sta sparendo anche questa funzione collettiva e collettivizzante della musica, dal punto di vista dei luoghi di aggregazione. Quando viene meno questa cosa è ovvio che l’individualismo diventa un dogma da seguire.

Purtroppo sta diventando la via in un momento storico in cui non devono esistere le sconfitte: si deve sempre vincere, anche quando non è vero. Impariamo a perdere: la società non ti insegna a perdere, ti insegna soltanto a perseguire la vittoria e a non imparare che caschi e ti sfondi il viso molte più volte di quelle che riesci ad andare dritto e vincere qualcosa. Avere vent’anni oggi è veramente un casino. E’ molto più complesso di quando avevamo vent’anni noi. Soprattutto se suoni e vuoi fare quello nella vita.

Pagina Instagram The Zen Circus

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