
Anni fa scrivevo libri per una casa editrice che pubblicava una collana che si intitolava “I Cattivi” e che ospitava volumetti su figure particolarmente iconiche ma anche con evidenti lati negativi o proprio malvagi. Poi ci ho litigato. Con l’editore, non con i Cattivi. Lo faccio, a volte.
Se ci scrivessi ancora, sarebbe fin troppo facile proporre un ritratto del villain per eccellenza di questi tempi, almeno tolti i virus: si chiama Donald Trump e ha appena annunciato di aver contratto il Coronavirus, appunto. Un team up tra i cattivi dell’anno.
Tuttavia che cosa potrei scrivere, nel mio ipotetico volumetto, che non si sappia già, dell’attuale e si spera mai più presidente degli Stati Uniti, dell’uomo con la singola concentrazione di potere più rilevante nel mondo, e mi perdonino Putin e i cinesi che sicuramente leggono queste righe?
Niente. La cosa curiosa è proprio questa: il giornalismo prevede tra le sue virtù (lo so, sembra strano, ma ne ha) la capacità di scavare nel profondo e nel privato per portare alla luce aspetti interessanti, a volte controversi, di una personalità che per qualunque motivo rivesta un interesse pubblico.
Perché si fanno le interviste? Naturalmente per essere aggiornati sull’ultimo disco in uscita, sul nuovo libro, sull’azione legislativa del politico, sul nuovo ristorante che lo chef di turno ha aperto. Ma queste sono novità che scopriresti anche con un lancio d’agenzia o con un post sui social. L’intervista si fa per carpire all’intervistato qualche piccolo lato privato che magari non è poi così tanto sicuro di voler rivelare al mondo.
Ma che cosa c’è di privato e di scabroso di Trump che non si sappia già? Figlio di un noto immobiliarista di origine tedesca e di una donna scozzese (tutti e quattro i nonni di Trump erano degli immigrati, guarda come a volte è bizzarro il destino, oppure è ottusa la politica) ha costruito le sue alterne fortune a partire dall’azienda del padre e di un’immagine mediatica che ha sapientemente coltivato nel corso degli anni.
Grattacieli, hotel, trasmissioni televisive, investimenti nello sport, matrimoni con modelle, attività in bancarotta, tutto per lo spettacolo. Quando finanzia una corsa ciclistica a tappe, la ribattezza Tour de Trump. Quando Forbes stima il suo patrimonio sui 4 miliardi di dollari, compra pagine di giornali per pubblicare l’elenco di ciò che possiede e sostenere che in realtà vale 9 miliardi. Si butta a capofitto perfino nelle sfide infantili e parodistiche del wrestling. E quei capelli, quei capelli.
Naturalmente da quando è diventato presidente il tutto è diventato ancora più parossistico, più clamoroso. E più pericoloso: dal muro con il Messico all’appoggio ai suprematisti bianchi, all’uso della tortura, alle associazioni pro-life, dalla negazione del riscaldamento globale ai giochi di potere in politica estera, quasi tutte le decisioni di questo quadriennio sono sembrate la materializzazione del peggior incubo di persone, non dico democratiche, ma quantomeno sensate.
E questo lasciando fuori dal discorso le accuse di molestie sessuali, con almeno quindici donne che dichiarano di aver ricevuto da Trump attenzioni fuori luogo. Così come la recente scoperta che, patrimonio da 9 miliardi o no, per anni non ha pagato un dollaro di tasse. Come gran parte delle multinazionali in America, del resto. E non solo in America.
Capitolo a parte meriterebbe la “gestione” della pandemia, fatta di vanterie immotivate, sconfessioni dei medici e degli scienziati, apparizioni pubbliche senza mascherina, pronunciamenti pubblici a favore di farmaci non testati, proclami sui vaccini, confusione a ogni livello. Ah già, e le iniezioni di candeggina.
Ma non c’è niente di nascosto o di oscuro. Anni fa avevamo in Italia un partito (in realtà più di uno) che nascondeva i propri maneggi nei corridoi dei palazzi del potere, che incontrava esponenti mafiosi nelle segrete di qualche anfratto, che occultava i propri movimenti finanziari sospetti grazie a banchieri conniventi e collusi. E così è stato anche in altri Paesi: si tendeva a nascondere malaffare ed errori, ci si vergognava un po’, almeno.
Trump è l’ignorante globale salito al soglio più importante, è il tizio che si è impadronito del megafono senza niente da dire, ma con l’espressa volontà di dirlo molto forte. Ma fin qui, nessun problema. La storia è piena di personaggi di questo tipo. Li si ascolta per cinque minuti, poi li si accompagna al bar o, nei casi peggiori, in manicomio.
Invece ora no: sulla base di perversi meccanismi di identificazione, questo signore ha governato l’America per quattro anni e rischia di farlo per altri quattro. In parte per l’assoluta povertà della controproposta politica, ma moltissimo per la scarsa lucidità dell’elettorato.
L’unica speranza effettiva per liberarsi di lui è che, come quando fu eletto Obama, le minoranze si presentino in massa a votare. Ma il danno ormai è fatto, la strada è aperta. Non so dire se sia colpa dei social, oppure se mettermi a fumare la pipa, accettare l’età che avanza e prendermela con il degrado dei tempi.
Quello che è chiaro è che la politica ha imparato a fare a meno della vergogna. Sentimento piccolo, a volte perfino un po’ puerile, un freno, in alcune circostanze. Ma tanto utile quando si tratta di frenare la mano che ruba una mela, o che firma un decreto che distruggerà la vita di molte persone. O anche semplicemente quando si tratta di frenare la lingua e di non dire la prima cazzata che ti è venuta in mente. Che è esattamente l’impressione che offre Trump quando parla in pubblico.


