“Sono stanchino, ieri ho fatto la data zero della tournée, è andata bene ma ho dormito poco, come al solito…” La voce di Appino al telefono suona un po’ meno brillante che su disco, ma nel corso dell’intervista si rivelerà assolutamente all’altezza della performance.

Gli abbiamo telefonato per chiacchierare un po’ a proposito di Grande Raccordo Animale, l’album che ha appena pubblicato (qui la recensione) e anche per capire come si riesce a gestire e a differenziare Appino cantante degli Zen Circus con Andrea Appino cantante solista. Pare siano la stessa persona, con quasi le stesse abitudini.

Penso che questo disco ti abbia messo in una situazione singolare: con gli Zen Circus ormai il meccanismo è rodato, ma “Il Testamento” ti ha regalato anche il successo e i riconoscimenti anche da solista. Perciò: come hai affrontato questo nuovo disco, con quali idee e con quali pressioni?

L’ho gestito proprio con tutta la leggerezza del caso, con serenità. Non mi sono certo scervellato a pensare a un seguito de Il Testamento, o ad ampliare in qualche modo una platea. Partiamo dal presupposto che suono con gli Zen da 18 anni e quella è la mia vita. Quando faccio dischi da solo li faccio perché li voglio fare e perché voglio fare cose che mi stimolano.

Cose che mi portano a scrivere nuove canzoni, a sperimentare nuove sonorità o a esplorare nuovi luoghi che magari con la band non andiamo a esplorare per svariati motivi. Fatto Il Testamento che era un’esplorazione di rock molto più duro, con tematiche più cupe e anche una bella mazzata a livello personale, Il Grande Raccordo Animale è arrivato da solo, mentre gironzolavo per il mondo per piacere, cosa che non facevo da tanto tempo, senza che lo volessi scrivere.

Ho annotato idee sul taccuino, mentre ascoltavo tanta musica diversa. E’ un disco che mi ha dato un gran sorriso a registrarlo, scriverlo e farlo. Come avevo fatto con Il Testamento, anche se quello è stato molto più doloroso perché comunque ero partito programmaticamente a parlare della famiglia italiana e dei suoi lati oscuri.

Ora invece mi sono semplicemente lasciato andare alla leggerezza. C’è molto sole perché ho cominciato a scrivere quando ero nel deserto. Ci sono molti spazi vuoti e c’è molta solitudine, ma è una solitudine piacevole. Per il resto non l’ho affrontato dicendo “Oh mio Dio mi gioco la carriera”, altrimenti non farei dischi da solo.

Non ho avuto nemmeno pressioni personali, anzi in Tropico del Cancro ricordo appunto che non voglio farmi trovare dove tutti mi vogliono aspettare…

Mi sembra che tu ti sia calato in modo maggiore nei panni del “cantautore”: operazione consapevole o spontanea?

In realtà io sono sempre stato un cantautore, se si intende scrivere canzoni con una chitarra o un pianoforte e accostare delle parole. Se gli Zen non si fossero chiamati Zen Circus ma Andrea Appino, probabilmente sarei stato considerato un cantautore anche prima perché dipende molto dal fatto che c’è il mio nome.

Brani cantautorali con gli Zen ci sono sempre stati, era forse anche più cantautorale Il Testamento, da un punto di vista lirico. Ovvio che affiancato a una band tellurica come quella che ha suonato il disco faceva pensare ad altro, però alla fine per esempio il Premio Tenco è arrivato con quel disco.

Perché hai scelto Paolo Baldini per la produzione?

Così come per l’album precedente (in quel caso era Giulio Favero), anche in questo caso il produttore è stato scelto a posteriori: avevo già lavorato i provini conscio di con chi l’avrei fatto. Paolo, per quanto riguarda le sonorità più afro ci stava sicuramente bene. Magari di primo acchito si può pensare che le sonorità del disco siano reggae, ma secondo me si tratta più di influenze afro.

In Italia Baldini poi è l’unico al momento che si rapporta con il mondo, e con quel mondo lì in particolare. Ho adorato i suoi lavori e volevo proprio fare il disco con lui. L’abbiamo fatto a quattro mani, magari qualcuno ha pensato “C’è il levare perché c’è Baldini”: il levare c’era prima di Paolo, Paolo lo ha ottimizzato.

Un disco in viaggio

Come nasce “Ulisse” e perché hai deciso di aprire il disco con questa canzone?

Il disco parla di viaggio e Ulisse è il viaggiatore più famoso del mondo. Solo che Ulisse voleva disperatamente tornare a Itaca, ed è stato un eroe per questo, mentre noi molto spesso nel mondo moderno vogliamo viaggiare per allontanarci da Itaca e si viaggia senza sapere dove sia Itaca.

In realtà, anche se è una canzone solare nasconde interrogativi molto grossi: abbiamo un’Itaca? Dov’è e qual è? Siamo pronti a sacrificarci per qualcosa?

Mi sembra che “Tropico del Cancro” sia una canzone particolarmente aperta e sincera (in un accesso di banalità personalmente l’ho paragonata all’ “Avvelenata” di Guccini)…

Be’ è un omaggio a Guccini, che poi non è soltanto Guccini ma è tutto il cantautorato derivato da Bob Dylan, è stato lui il primo a fare canzoni in cui non c’è mai il ritornello, si ripetono le strofe. Io sono un fanatico di Dylan, e quindi per forza di cose, traslato in italiano anche di De André, di De Gregori e di Guccini, per forza.

Non è proprio un’Avvelenata perché io non ce l’avevo con nessuno, ma volevo che tutto fosse chiaro su che cos’era questo disco per me. E’ una sorta di bilancio di questi anni con gli Zen, il pubblico è cambiato, è aumentato, ci sono tante aspettative ma è bene non farsene troppe. Le aspettative molto spesso sono fatte per essere mancate.

Hai definito “La volpe e l’elefante” un omaggio ai Talking Heads, a Napoli e al Senegal: puoi spiegare meglio?

Il beat è assolutamente Talking Heads, la linea è decisamente partenopea e c’è un sacco di afro a partire dall’assolo di chitarra. E’ il brano di cui vado più fiero del disco perché fa ballare e io non avevo mai fatto una canzone che potesse far ballare e non pogare. Ci tenevo particolarmente e rimane una delle cose che quando sento godo, perché il giro di basso mi fa godere.

Come è stato accolto dal resto della band questo disco?

Non se n’è ancora parlato, mi hanno detto che è piaciuto ma non abbiamo approfondito. Ne parleremo quando sarà il momento, ora ognuno si gode la sua vacanza…

Comunque 2013 disco tuo, 2014 con la band, 2015 ancora disco firmato Appino, hai tenuto un ritmo piuttosto serrato… Ci sono state interferenze di qualche tipo?

Ma no, è un momento storico in cui per poter tirare avanti si fanno pochi dischi e tanti tour, ma io sono uno scrittore, mi piace scrivere. Quando ho quattro giorni liberi, una giornata la dedico sempre a scrivere e a buttare giù musica. In realtà nel computer penso di avere ottanta brani strumentali, mettendomi sotto potrei fare due dischi l’anno…

E’ qualcosa che mi piace, mi rilassa e non ci vedo niente di male, negli anni Sessanta e Settanta era così, i musicisti facevano un disco l’anno, a volte anche due.

Né tu né la band siete mai stati molto schiavi del discorso ep…

Abbiamo fatto un ep, però tendiamo sempre a fare cose nuove, perché la magia che si crea quando si fanno cose nuove mi rende veramente felice, entusiasta, mi fa uscire la sera con il sorriso sulle labbra, non c’è niente di forzato. Quando sarà forzato posso garantire al limone che non ci sarà, perché se è forzato non ne farò niente.

Appino in tour

Queste le prime date confermate del tour di Appino: il 5 giugno al MI Ami Festival di Milano, il 20 giugno alla Notte Bianca di San Giovanni Valdarno (Arezzo), il 27 giugno alla Darsena di Castiglione del Lago (Perugia), il 28 giugno al Forest Summer Fest di Foresto Sparso (Bergamo), il 5 luglio al Festivalbeer di Morrovalle (Macerata), il 18 luglio al D-Skarika di Odolo (Brescia), il 19 luglio all’Indievisibile Festival di Torano (Teramo), il 23 luglio al Rocksulserio di Villa sul Serio (Bergamo), il 25 luglio a Sulla Cresta dell’Onda di Montefortino (Fermo), l’11 agosto all’Anguriara Fara di Fara Vicentino (Vicenza), il 20 agosto al Fortissimo di Vinadio (Cuneo), il 27 agosto al Carroponte di Sesto San Giovanni (Milano) e il 5 settembre al Rockereto di Rovereto sulla Secchia (Modena).

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