Con forti influssi post rock e shoegaze, Gaze at the Sun è il nuovo disco dei Brain Ragu: il trio toscano, con una ricca storia alle spalle. Ecco la nostra intervista.
Siete nati nel 2014 ma il primo lp arriva solo oggi: ci raccontate perché?
Simone: La ragione principale per cui abbiamo pubblicato un lp e due ep in 9 anni è che siamo molto meticolosi. Cerchiamo di prenderci tutto il tempo che ci serve nella stesura dei pezzi e curiamo personalmente ogni aspetto delle nostre pubblicazioni. Amiamo molto l’approccio DIY, ecco.
Altro aspetto importante e che non siamo per nulla ossessionati dal presenzialismo. Non ci interessa particolarmente fare una singolo al mese o un disco all’anno. Questa cosa è un po’ in controtendenza rispetto ai tempi che corrono, ma non ci interessa molto.
L’idea di GATS è nata perché ci siamo accorti già dopo le prime fasi di ideazione che per mettere insieme tutti gli elementi su cui avevamo lavorato avremmo avuto la necessità di pubblicare un corpo unico, un lp appunto.
Che ispirazioni avete sfruttato per immaginare il nuovo disco?
Giorgio: Ricordo benissimo un momento in particolare. Ero a Firenze e avevo appena ascoltato un live set di Max Cooper a Teatro Puccini. Tornando verso casa ho attraversato a piedi di notte il parco delle Cascine (che, per inciso, è immenso) e, immerso nella quiete di un lunghissimo viale illuminato a sera, ho letteralmente suonato nella mia testa il brano che poi è diventato Neon Fog.
GATS è un disco intimo e contemplativo. Le atmosfere che abbiamo creato nascono da momenti di solitudine, di gioia, di rabbia, di eccitazione incredibile e di sconforto. Possiamo dire che ha in un certo senso lenito le nostre ferite e dato sfogo alla nostra passione. Non pretendiamo che GATS piaccia a tutti, ma chi saprà coglierne questi aspetti lo adorerà.
Qual è il vostro metodo di composizione?
Simone: I nostri brani nascono e si evolvono in diverse fasi. Solitamente suoniamo lunghissime jam e scriviamo idee che poi elaboriamo individualmente. Questo processo può essere velocissimo o davvero molto lungo. Un altro elemento molto importante è la strumentazione che decidiamo di utilizzare e il metodo con cui decidiamo di registrare, che può variare molto in base al mood che diamo ai pezzi. Diciamo che cerchiamo di affrontare la stesura di nuovi brani con un approccio sempre diverso.
Giorgio: È importante sottolineare come la pandemia abbia cambiato molto l’idea embrionale di diversi brani presenti nel disco. Il non poter comporre “face to face” e i lockdown hanno dato all’approccio compositivo una spinta in più che inizialmente abbiamo avuto difficoltà a capire. Abbiamo anche scritto per la prima volta brani totalmente a distanza, forzata ovviamente, e abbiamo avuto molto più tempo per approfondire i dettagli del sound.
Quali sono le vostre band di riferimento?
Giorgio: Domanda un po’ complicata. Cercherò di essere breve. Partiamo col dire che siamo grandi amanti della musica strumentale, sia essa elettronica o suonata. Il disco prende ispirazione a piene mani da band leggendarie dell’elettronica come Boards Of Canada, Bowery Electric, Max Cooper, Tycho e affini, e ha un approccio alla composizione decisamente Post Rock in stile Explosions in the Sky, God is an Astronaut, Mogwai.
A tutto questo abbiamo aggiunto una fortissima impronta shoegaze nello stile delle chitarre e all’amalgama del sound in generale. D’ispirazione sono stati i My Bloody Valentine ovviamente, ma anche band più underground del genere come Airiel, Whirr, Ringo Deathstarr, Pinkyshinyultrablast, Flyying Colours.
Dove e quando possiamo vedervi dal vivo?
Mattia: La nostra peculiarità prima della pandemia era cercare di suonare dal vivo il più possibile ed è nostra assoluta priorità tornare a farlo. Stiamo riprendendo vecchi contatti e ne stiamo cercando di nuovi. Dovremmo ripartire la stagione invernale con date tra Roma, Firenze e Siena al momento.
È importante per noi tornare a suonare perché ogni volta che abbiamo pubblicato musica abbiamo sempre cercato di proporre al meglio il disco dal vivo. Per noi questo si traduce in un lunghi periodi di prove e di ricerca estetica del nostro spettacolo. Incrociamo le dita, non vediamo l’ora.