Concepito durante il periodo pandemico e pubblicato quest’anno su tutte le piattaforme digitali e in formato fisico, Liar è l’ultima
autoproduzione dei cesenati Dang Dang, e rappresenta la naturale evoluzione di un progetto sonoro partito ben undici anni
fa all’insegna di suoni allucinati e psichedelici di band quali Stone Roses e Happy Mondays, come si evince dai primi album, You
Should Be Happy del 2016 e Bellaria del 2019.
In questo disco, tuttavia, le intuizioni synth-wave che avevano più pienamente caratterizzato i lavori precedenti diventano preponderanti rispetto al mood psichedelico delle origini, trovando un’espressione più articolata, personale e ricca di rimandi e
contaminazioni.
Dang Dang traccia per traccia
Con battiti accelerati, Filthy White Lies apre il disco: voce femminile che fa quasi da sfondo a una linea di basso particolarmente importante, per un pezzo completato da una chitarra acida e funk.
Parte in modo molto meno scintillante e più ragionato Sex with Him, che comprende anche un sax che fa subito anni ’80, quasi new romantic.
Violentemente new wave è invece il vento che traspira da Liar, pezzo senza compromessi e molto robusto nei ritmi, una title track a piena forza che si posiziona al centro della pista e si fa ascoltare da tutti.
Molto più raccolta Not Safe Enough, che segue percorsi notturni e torna alla voce femminile. Il brano poi acquista fiato e si anima ulteriormente in una seconda parte più avventurosa.
Poi scende The Frost, canzone a più facce ma sicuramente dal passo epico e importante, quasi orchestrale, quasi lirica con il proprio incedere. C’è qualcosa dei Cure, ma anche qualcosa di Game of Thrones nel gelo che avanza in questo brano.
Altri umori e altri atteggiamenti quelli che la voce e la chitarra di After the War introducono subito dopo. Il brano si fa ondeggiante, morbido, ondulato. Acquista echi, approfondisce, scava in substrati di drum’n’bass.
Drumming evidente e un atteggiamento disinvolto caratterizzano la rapida Body Reaction, in cui il basso detta la linea con scioltezza. Basso che è protagonista anche dei ritmi di Cheap Chinese Clothes, che poi si allargano, si scompongono e si fanno tropicali e jazz, finendo quasi in una festa danzante ma un po’ amara.
Irriconoscibile, elettronica e trasfigurata, ecco poi la cover di Vamos a la playa, dimenticabile successone dei Righeira, a dispetto delle continue riproposizioni e tentativi di farne un classico (ma classico in che senso?). I Dang Dang hanno però la forza e il coraggio di buttare via tutta la parte musicale (?) e di conservare soltanto l’improbabile testo. Ne esce qualcosa di ascoltabile, con lunga coda strumentale, anche se non proprio il vertice del disco.
Si torna a proposizioni originali con l’omonima Dang Dang, uscita acida e obliqua dal disco, che si allunga oltre i nove minuti.
Un progetto ricco e profondo, non sempre immediato, ma meritevole di più ascolti: il nuovo album dei Dang Dang non si propone di essere pop ma lo è quasi malgré soi, proponendo con eleganza elementi che si compongono senza affastellarsi, in una sorta di danza a molti movimenti e con molti ritmi diversi.