Il giornalista, ma anche ex (?) bassista ed ex (?) cestista Giuseppe Catani ha provato a mettere insieme due mondi e due passioni: basket e musica, ovviamente. Il risultato è Pick & Rock, edito da Arcana. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Facciamo come si fa con i cantautori, ti va? Partiamo dal raccontare chi sei.
Cero che mi va. Sono un ex ragazzo che ha passato la gioventù perseguendo due obiettivi: diventare un musicista e un giocatore di basket. Non uno o l’altro, tutte e due le cose insieme. Ed entrambe si risolsero in un unico, misero fallimento. Scelsi il basso elettrico come strumento di elezione, lo presi in prestito da un amico, cominciai a suonarlo a orecchio e in breve tempo diventai più bravo di Sid Vicious (vero, non è che ci volesse molto…). Poi andai a lezione da un ragazzo più grande di me, lui iniziò proponendomi le scale musicali ma non ci fu verso, non riuscì mai a impararle.
Così smisi, anche perché l’amico di cui sopra, un po’ arrabbiato, reclamò il suo basso, sottolineando il fatto che non gli sembrava glielo avessi chiesto in prestito. Mai capito cosa volesse insinuare quella volta. Poi il basket. Ero un playmaker spumeggiante, avevo il campetto proprio sotto casa e ogni santo pomeriggio, sotto il sole cocente o con il termometro sotto lo zero, lo passavo lì, fregandomene dei compiti di scuola. Alla faccia dei teoremi di Pitagora e Talete, insomma.
Ci fu anche il tempo per un po’ di trafila con le squadre giovanili del Porto Sant’Elpidio Basket, la squadra della mia città, solo qualche toccata e fuga, però: ero convinto che i miei allenatori non capissero una fava di pallacanestro, così, altezzosamente, decisi di tornare al più anarchico campetto. Dove sviluppai un uno contro uno micidiale, che i miei amici di scorribande cestistiche ancora ricordano, specie quando son depressi e han voglia di ridere.
Ok, ora puoi spiegarci qual è il legame che unisce basket e musica e che ti ha indotto a scrivere “Pick & Rock”?
Dopo aver perso i treni con il basso e il basket giocato, mi misi a scrivere. Di palla a spicchi e musica, ovvio. Andò decisamente meglio. Il legame lo trovai a forza di ascoltare dischi e buttare giù recensioni: mi accorsi ben presto che sono stati tanti i musicisti a dedicare le proprie canzoni alla spicchia. L’idea che potessi mettere insieme musica e pallacanestro, in pratica le passioni principali della mia vita, covava da tempo e trovò realizzazione nel 2014, quando, assieme all’immarcabile Marco Pagliariccio, misi su “Pick & Rock”, una rubrica ospitata in rete dal sito specializzato dailybasket.it.
In pratica, la rubrica nacque come un contenitore di recensioni, il più delle volte strambe (le mie, non quelle dell’immarcabile), di canzoni con al centro il basket e il suo universo. Non solo canzoni: a volte è stato sufficiente un coro, un videoclip o un’improvvisazione estemporanea per partire per la tangente. La rubrica, che non si è mai fermata, è stata l’ossatura del libro pubblicato lo scorso luglio da Arcana, tra le cui pagine compaiono quasi tutte le recensioni pubblicate negli ultimi sei anni da dailybasket, rivedute, corrette, a volte riscritte di sana pianta.
Apparentemente il genere più vicino al basket è l’hip hop. Eppure il tuo libro non si pone grandissimi limiti di genere, né di nazione (benché parli soprattutto di italiani e americani, com’è ovvio).
No, nessun limite, di nessun genere. Ci sono i Red Hot Chili Peppers ma anche i Sopravvissuti, un’oscura band di Rieti che tentò di coniugare il verbo psichedelico all’alba degli anni ’70, e poi i cantautori, alcuni insospettabili, come Claudio Lolli, un maestro del blues come Fabio Treves, che riuscì a far cantare niente meno che Dan Peterson, i Prefab Sprout, Stanley Clarke… Le canzoni sono belle e brutte (a volte orribili, a dire il vero): l’estetica non ha voluto la sua parte.
Vero, c’è tanto rap, è un legame quasi di sangue quello che lo unisce, soprattutto nell’ambito della cultura afroamericana, al basket, e non potevo non tenerne conto, benché l’hip hop non sia proprio la mia tazza da tè. Vero anche che si parla soprattutto di artisti italiani e nordamericani, con qualche comunitario pronto a infilarsi nei pertugi rimasti liberi. Però sono riuscito a scovare una band serba, i Prljavi Inspektor Blaza I Kljunov (Lo sporco ispettore Blaza e i Becchi), una sorta di Elio e Le Storie Tese di oltre cortina, che interpretano una canzone dedicata a Dejan Bodiroga, dall’allusivo titolo “Seks, droga, Bodiroga”.
Invece un limite di “genere” c’è tra maschile e femminile: benché il basket sia un genere molto amato e molto praticato anche dall’altra metà del cielo, non ci sono tantissimi esempi di musiciste che hanno cantato la palla a spicchi.
È vero anche questo. All’interno del libro, i musicisti trattati sono quasi tutti uomini, con due eccezioni: Marsha Ambrosius, cantante di R&B britannica parecchio nota in patria, e Giorgia Sottana, una delle più forti playmaker italiane degli ultimi anni, che un giorno inforcò il microfono e decise di dare vita a un rap niente male come “She got game”. Non so per quale motivo non ci siano tante musiciste che abbiano inserito al centro delle loro performances la palla a spicchi: la spiegazione più logica, se vuoi banale, è che noi portatori sani di cromosomi XY siamo più portati per l’agonismo, e lo sport ci piace il più possibile brutto, sporco e cattivo. Alle donne certi argomenti interessano meno. Non per nulla sono molto più intelligenti dei maschietti.
Domanda stupida e ovvia per chiudere: se ti chiedessi chi è il Michael Jordan della musica (o il Lebron James, o il Kobe Bryant, il Wilt Chamberlain, il Bill Russell… insomma ci siamo capiti), tu chi risponderesti?
Più che stupida è pericolosa: la risposta potrebbe costarmi il saluto di qualcuno. Va be’, ma chi se ne importa. Ecco, per me i Michael Jordan (i, non il) della musica sono Lennon e McCartney. Poi, se mi chiedi chi sceglierei come sesto uomo, da amante della canzone d’autore italiana, non posso che citare un outsider come Flavio Giurato…