Intervista e streaming: Loveless Whizzkid, non volevamo avere rimpianti
I Loveless Whizzkid sono un power-trio nato a Catania all’inizio del millennio: il loro ultimo lavoro si chiama Name improvements for everyday stuff. Registrato e mixato da Davide Iannitti, chitarra e voce del gruppo; maniacalmente composto, arrangiato e infine a lungo lavorato in studio ricercando un suono il più possibile genuino. Il disco è stato masterizzato da Matthew Barnhart al Chicago Mastering Service. Abbiamo rivolto qualche domanda a Davide Iannitti per scoprire qualcosa di più sull’album, che puoi ascoltare qui:
Una domanda banalissima per partire: “Name improvements for everyday stuff” ha richiesto circa due anni per essere ultimato. Perché? Difficoltà o ricerca della perfezione?
Un pochino dell’uno e un pochino dell’altro… Abbiamo alternato dei periodi massacranti di full-immersion a mesi e mesi di sosta, e quando abbiamo cominciato a registrare non avevamo ancora i mezzi per fare un buon lavoro. In più mancavano quasi tutti i testi, che sono usciti in certi casi a un anno e mezzo dall’inizio delle registrazioni.
Poi è stato difficile accontentarci. Non volevamo avere rimpianti, per questo disco, e ci siamo presi tutto il tempo necessario a ritoccare anche i più piccoli dettagli per farlo suonare proprio come volevamo.
Direi che copertina e titolo dell’ep meritano un approfondimento: potete spiegare le vostre scelte in merito?
La copertina è il frutto della tecnica e dell’immaginazione del grande Orazio Marino, che già aveva curato l’artwork del nostro primo disco, “We were only trying to sleep”. Anche qui ci siamo presi molto tempo, sicuramente più di quello preventivato. Le prime proposte non ci convincevano del tutto, così abbiamo proposto a Orazio una vecchia foto che aveva stuzzicato il nostro immaginario per anni, e da lì lui ha tirato fuori quella che adesso è la copertina, e siamo molto contenti.
In più, sui nostri CD in formato simil-7”, l’artwork ha tutto lo spazio che merita, e il risultato è davvero parecchio affascinante. Per quanto riguarda il titolo, deriva da una serie di post pescati da 9gag. Non c’è un motivo preciso per cui l’abbiamo scelto, semplicemente funzionava e non avevamo alternative rilevanti.
Alcune tracce hanno un’impronta punk molto sponteanea, altre invece prendono orientamenti diversi e fanno pensare alla psichedelia o a direzioni, per così dire, “Sonic Youth oriented”… Come nasce e come si sviluppa una vostra canzone, normalmente?
In genere partiamo da un’idea covata per anni e la sviluppiamo per molto tempo ancora. In qualche modo è il pezzo che ci dice come vuole essere fatto, e lo teniamo in cantiere finché non siamo soddisfatti. Non siamo mai partiti dall’idea di fare un pezzo che somigliasse a qualcosa in particolare e non abbiamo un modo di lavorare standard per tutti. Al centro di tutto il processo c’è sempre l’idea, che tentiamo di rispettare e rendere secondo il nostro gusto, evitando il più possibile i compromessi e mantenedo la massima onestà. Cerchiamo semplicemente di fare pezzi che ci piacerebbe ascoltare e che ci piace ancor più suonare.
Loveless Whizzkid: campeggio, sogni lucidi e stragi
Come nasce “Fit for a windy place”?
Il pezzo è sviluppato su una melodia che ho avuto in testa per molti anni e che ha aspettato molto prima di trovare un testo soddisfacente. “Wendy” (è così che la chiamiamo fra di noi) è tra i pochi brani il cui testo è un vero e proprio racconto e parla di argomenti cari alla musica pop commerciale, come campeggio, sogni lucidi e stragi. Nella parte di mezzo, ero alla ricerca di un assolo di chitarra che non mi facesse schifo, ma dopo una decina di tentativi non avevo ancora qualcosa di soddisfacente. Così li ho messi tutti insieme, e questo è il risultato!
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Abbiamo cercato di essere il più possibile “onesti” e di rispettare ciò che siamo sul palco, cioè chitarra/voce, basso/cori e batteria/urla. La batteria è canonica, un solo tom, timpano e neanche troppi piatti. Il basso è spesso distorto e ogni tanto viene riverberato, ma niente di più. La chitarra è stata spesso doppiata, ma praticamente sempre facendo esattamente le stesse parti, con l’unica eccezione del finale di “Home-made messiah”.
Chitarra e basso sono stati ripresi con un numero spropositato di microfoni, che hanno dato non pochi problemi al mix e ci hanno insegnato tanto sulla parsimonia, ma al contempo ci hanno consentito di avere la spazialità che volevamo pur senza avere mai “il basso da una parte e la chitarra dall’altra”.
Le voci, infine, sono state sempre almeno doppiate, arrivando al massimo di “Toyhouse on greenhill” dove il cantato è formato dalla sovrapposizione costante di quattro linee vocali. In più ci siamo spesso chiusi in sala ad urlare come i disperati sfilacciandoci le corde vocali. Il risultato finale è un disco profondamente stereo, che però può essere sempre ascoltato da un solo lato senza perdere informazioni rilevanti.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Andiamo con un po’ di meritatissima pubblicità per la scena locale: abbiamo tutti e tre un rapporto di stretta amicizia con Claudio Palumbo, caustico ed eclettico cantautore catanese. Sto registrando il suo terzo disco, nel quale ognuno di noi tre suona in almeno un brano, e credo che se ne parlerà a breve.
Poi sono sicuramente degni di nota i Parbat, un trio strumentale math, e i Ravestar Supreme, che nonostante la giovane età già al primo live hanno dimostrato di sapere molto bene quello che fanno, che sono in quattro e suonano un ottimo shoegaze. Entrambi i gruppi riescono a sprigionare una gran bella potenza nel live, e sfoggiano idee davvero niente male!