Nati dalle ceneri dei Garden of Alibis e pronti a un nuovo inizio: i Senatore propongono il proprio mix di rock ed elettronica con Bisogni primari, disco che uscirà l’8 aprile ma del quale la band parla con noi in questa intervista.
Potete riassumere la vostra storia fin qui?
Senatore potrebbe sembrare un progetto giovane: si forma nel 2014, due singoli e primo disco in uscita nel 2016. Ma non è andata proprio così, come spesso accade nel mondo della musica. Abbiamo incominciato a suonare assieme molti anni fa come Garden of Alibis, stessa musica, altra lingua.
Nel 2012 abbiamo pubblicato “Colours”, che usciva allegato gratuitamente a uno degli ultimi numeri cartacei di XL di Repubblica. Con quel disco abbiamo fatto tante belle cose, un tour italiano, due europei, uno nelle case dei fan sparsi per la penisola, l’apertura dei Kasabian in Piazza del Duomo a Milano il 30 maggio 2013, e il Capodanno dello stesso anno in apertura a Giuliano Palma. Tutte vicende che ci hanno formato come persone e come musicisti.
Poi è arrivato quel momento, un paio di anni fa, in cui ci è venuta voglia di esplorare la nostra lingua, di verificare se davvero fosse impossibile adattare questa musica alle metriche dell’italiano, cosa di cui fino a quel punto eravamo sempre stati convinti. Tentativo dopo tentativo, arrangiamento dopo arrangiamento, testo dopo testo abbiamo scoperto che si poteva fare e, cosa ancora più importante, che non era affatto male.
A quel punto ci siamo trasferiti a Bruxelles per qualche mese, dove abbiamo fatto i primi concerti come Senatore (che strana storia, proprio quando ci eravamo decisi a cantare in italiano…) una specie di Erasmus musicale, un bel cambio d’aria per noi e per la band. Lì abbiamo scritto una fetta importante di “Bisogni primari”, e se ne vedono le tracce in diversi passaggi sparsi per il disco. A settembre abbiamo firmato per Inri, messo a punto gli ultimi testi, sistemato un paio di pezzi, registrato e prodotto il tutto ed eccoci qua.
L’8 aprile esce “Bisogni primari” e noi non vediamo l’ora.
Ci raccontate come nasce l’album, da quali premesse e con quale atmosfera avete proceduto alla lavorazione?
È stato un lavoro lungo, iniziato quasi due anni fa, un lavoro che definiremmo senza premesse in un certo senso. Terminata la vicenda Garden of Alibis ci siamo messi a scrivere musica, valanghe di musica, senza altra intenzione che produrre qualcosa di cui essere pienamente soddisfatti. Volevamo rinnovare il sound, ma non sapevamo bene come fare per riuscirci.
Abbiamo proceduto a rilento, cercavamo qualcosa ma nessuno sapeva con esattezza di cosa si trattasse. Le abbiamo provate tutte: ritmi veloci, quadrati, spezzati, dimezzati, suoni acidi, suoni gentili, un po’ di indie, un po’ di tribal un, un po’ di jungle un po’ di elettro pop e qualche chitarra hard rock. Pian piano è andato delineandosi, almeno nelle nostre teste, una specie di progetto o di idea generale, una griglia attraverso cui filtravamo le nostre ispirazioni per tirarne fuori un lavoro che avesse una certa coerenza.
Abbiamo passato ore e ore nel nostro studio mobile, allestito in una casa in mezzo al bosco, dalle parti della temibile Val Chiusella, o nel nostro gelido appartamento di Bruxelles. Siamo fieramente produttori di noi stessi: per noi registrazione e composizione sono indissociabili. Per rispondere sinteticamente forse direi 1) premesse: fare musica che ci convincesse senza esitazioni 2) atmosfere: tradurre certe impressioni, pensieri o esperienza in quella stessa musica, riversarcele dentro. E poi certo, tutto un disegno per fare ballare e saltare e cantare, una musica divertita e divertente, il più possibile auto-ironica, vagamente snob, un po’ come siamo noi per davvero.
Il mix de “L’Anticiclone del Nord” porta la firma di Max Casacci: come è arrivata la sua collaborazione? Potete annoverare la (piuttosto celebre) band di Casacci tra i vostri punti di riferimento?
Diciamo che con Max prendiamo spesso l’aperitivo nello stesso bar. Ci ha aiutati a fare una sorta di mix pilota per il disco, abbiamo messo a fuoco alcune cose e abbiamo ascoltato i suoi consigli. L’idea che i musicisti con anni di esperienza aiutino i più giovani ci piace, dovrebbe funzionare così. Tra i nostri punti di riferimento ci sono essenzialmente band inglesi e americane, siamo stati digiuni di musica italiana per molto tempo. Volendo è anche un nostro difetto, nel senso che l’ignoranza non paga mai.
No, non abbiamo mai considerato i Subsonica come un riferimento stilistico ma non c’è dubbio che siano l’unica band italiana seria e longeva ad aver raggiunto un simile successo di pubblico. Il loro è sicuramente un modello di gestione della band di sapore internazionale, e questo aspetto lo stimiamo molto.
Senatore: fiutare una traccia
Come nasce “Gli avvocati”, a mio parere uno dei pezzi più curiosi e originali del disco?
Ci fa molto piacere che ti abbia colpito proprio quel pezzo, e uno di quelli in cui crediamo di più. È anche quello più recente: è stato l’ultimo a entrare nel disco, più o meno verso la fine di ottobre, subito prima che incominciassimo le registrazioni definitive, quello con cui abbiamo tirato il fiato e ci siamo detti “è finita, ora ce l’abbiamo”.
Dal punto di vista musicale il pezzo nasce come tanti altri: una pagina bianca, qualche tentativo, una scintilla; per noi scrivere è sempre stato simile a fiutare una traccia, come cercare qualcosa di nascosto, qualcosa che è già lì da qualche parte e che aspetta solo di essere rivelato. È un’opera paziente, un’arte del montaggio: spunto su spunto, idea dopo idea, la musica si innesta su se stessa fino al momento in cui la canzone è lì, pronta e finita, proprio nel punto in cui fino a pochi attimi prima non c’erano che macerie confuse e sconclusionate.
Un discorso un po’ analogo vale per le parole. Qualcuno se ne esce con una di quelle considerazioni della domenica tipo “sentite che caldo, non è normale, siamo a novembre” e un altro gli risponde “sentirai che freddo a giugno”, ecco, quello è un verso, magari un primo verso, intorno al quale si ricama una trama di suggestioni: che buffi i giovani avvocati in libera uscita, il venerdì sera quando la pratica è finita e si suicidano di shottini al bancone del bar. Qualcuno in effetti scende dallo scooter con quegli orrendi giubbotti a forma di gilet. Le giacche senza maniche.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Gli strumenti sono i soliti, batteria essenziale, due chitarre e basso. Per il suono della chitarra lead abbiamo trovato un incastro di distorsione, octaver e riverbero che ci piace molto. Sembra quasi un synth. A noi ricorda i suoni di Black Keys e Two Door Cinema Club. Poi ci sono alcuni suoni di stampo elettronico ricorrenti. Il più utilizzato è un sintetizzatore molto grasso nella sezione bassa del mix che fa l’effetto sidechain (quello alla Satisfaction di Benassi per intenderci). E qualche battito di mani qua e là.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Questa per noi è una domanda difficile ma ben venga. Non siamo molto allineati. Di fondo come abbiamo già detto c’è il fatto che siamo cresciuti ascoltando musica anglofona. I Rolling Stones, Bowie, i Clash. Poi i Green Day e gli Offspring e in età più matura Kings of Leon e Killers. E Vaccines, Alt J, Two Door Cinema Club, Fratellis, George Ezra. Il maestro Battiato è l’unico italiano che ci mette d’accordo tutti.
Però, chi più chi meno, stiamo scoprendo l’attuale musica indipendente italiana. Visto che è appena uscito l’album, I Cani. Molto bello. Bravo anche Calcutta e Io Sono un Cane. E i Thegiornalisti. Hanno tutti una scrittura dei testi non retorica e moderna, e allo stesso tempo curano il tema melodico. Certo la tendenza cantautoriale che li contraddistingue dà precedenza alle parole ma sacrifica, a nostro avviso, la costruzione di un sound identitario e originale.