Ju Bhota: recensione, intervista e streaming

Compositore, polistrumentista, produttore, Ju Bhota ha una biografia musicale che si espande lungo i decenni (3) di attività. Ha pubblicato Kali Yuga, un ep da sei tracce (qui lo streaming, in basso la recensione) con influenze multiple che vanno dalla musica etnica al funk. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Alle spalle hai una lunga storia musicale, perciò non pretendo un racconto dettagliato, ma potresti farci un riassuntino di ciò che hai fatto prima di “Kali Yuga”?

Prima di “Kali Yuga” c’è stata una vita ricca di musica… Ho iniziato a suonare da bambino e non ho mai smesso, così sono passati 30 anni. Nel tempo ho avuto l’opportunità di studiare diversi strumenti e linguaggi musicali, imparare a processare e lavorare con il suono, vivere numerose esperienze sia live sia in studio.

Nel 2014 ho dato il via al progetto solistico “Ju Bhota” che si è concretizzato nel 2015 con l’uscita del primo album The Right Side. Produrre musica dalla a alla z in maniera autonoma è stato da sempre un mio sogno e se mi guardo indietro, per renderlo reale, ho trascorso anni di duro lavoro. Finalmente oggi ho la possibilità di tradurre le mie idee in musica, libero di scegliere le note e le sonorità che voglio e continuamente stimolato ad apprendere cose nuove, dato che per curare sia l’aspetto musicale sia quello tecnico è richiesta una ricerca continua su più fronti.

Che tipo di idee avevi quando ti sei messo a lavorare sul nuovo disco?

L’idea di base che attualmente sta dietro “Ju Bhota” è quella di interpretare musicalmente le tensioni dei tempi che stiamo vivendo…tutto ciò dal basso, dalla strada, tra la gente…mi sento profondamente in empatia con quanto accade oggi giorno, ogni brano è come se fosse una colonna sonora proveniente dalle periferie inascoltate di questo mondo, una musica ibrida e contaminata, vagabonda, energica, di strada.

Sotto l’aspetto concettuale, se The Right Side è un’incitazione a fare delle scelte di consapevolezza individuale, Kali Yuga è un’immagine della realtà che stiamo vivendo, segno che il tempo delle scelte incombe su di noi.

Sotto un aspetto prettamente musicale, pur con le dovute differenze tra il primo e il secondo album, con Kali Yuga volevo sostanzialmente proseguire la strada aperta da The Right Side. In entrambe i casi ho continuato la ricerca di un sound originale e personale dato dagli incastri tra percussioni, basso e batteria, accompagnato da melodie, accordi e sonorità non convenzionali.

Visto che sei polistrumentista, oltre che “onnivoro” a livello musicale, quali sono gli strumenti che hai suonato in prima persona nel disco e in quali casi ti sei fatto aiutare da qualcun altro?

Come già detto ho fatto tutto da me, prima suonando e registrando tutti gli strumenti, poi procedendo con le fasi successive di produzione. Nel disco non ci sono campioni o contributi di altri. Ciò non vuol dire che non sono aperto a collaborazioni, anzi, sono in cerca di persone con cui condividere e sviluppare le mie idee, soprattutto per quanto riguarda le esibizioni dal vivo.

Soltanto quando suoni insieme ad altri viene fuori quella magia che è più della somma delle capacità individuali… Il jazz è forse l’esempio principe di questo approccio e mi piacerebbe molto poter sviluppare i miei brani con il contributo di altri.

Su quali strumenti componi le tue canzoni?

Dipende, non seguo uno schema fisso, ogni brano ha una sua genesi. Può indifferentemente nascere da un’idea ritmica, da una melodia, da un giro armonico o anche da un singolo suono che mi ispira. E’ tutto molto istintivo e legato a quel singolo momento. Se si tratta di melodia o armonia in genere suono la chitarra o la tastiera, se si tratta di ritmo suono le percussioni o la batteria.

Come nasce la traccia d’apertura, “Caballero Efo'”?

“Caballero Efo’” è uno dei soprannomi con cui il mio maestro di percussioni, Humberto “La Pelicula” Oviedo, è conosciuto nella sua terra, a Cuba. Lo chiamano così perché a lui piace molto ballare sul ritmo “Abakuà”, che è la poliritmia afrocubana che si sente quasi costantemente nel brano. Dato che è un ritmo poco conosciuto e che mi è sempre piaciuto molto, mi è venuta voglia di mescolarlo con sonorità contemporanee, facendo così anche un piccolo omaggio al mio maestro a cui sono molto legato.

Puoi descrivere i tuoi concerti?

Al momento con “Ju Bhota” mi sto occupando di composizione e produzione musicale. Attualmente i concerti che faccio sono in qualità di percussionista in altri progetti musicali. Mi piacerebbe molto esibirmi live con la mia musica, ma per questo devo prima trovare persone che abbiano voglia di partecipare e sviluppare il progetto. Potrei salire sul palco da solo e affidarmi esclusivamente alle macchine ma, come già detto, per il discorso live voglio che si crei una magia musicale suonando insieme ad altre persone.

Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimi di più in questo momento e perché?

Sarebbe molto interessante discutere sulla definizione di “artista indipendente”. Per me “indipendente” non è tanto l’artista in sé ma quello che ascolto dell’artista, a prescindere dai contratti discografici. Pur non essendo, mea culpa, un conoscitore dell’attuale scena indipendente italiana che sicuramente sarà florida di nuove realtà musicali, posso indicarti alcuni tra gli artisti italiani che stimo moltissimo in quanto hanno sviluppato le loro idee indipendentemente dal trend e dalle richieste di mercato….

Penso ad esempio alle sonorità di un “Lingo” degli Almamegretta, alla ricerca sia musicale sia poetica di Vinicio Capossela, alla potenza di The Bloody Beatroots, al sound criminale dei Calibro 35, all’ultimo capolavoro dei Goblin Rebirth, alla dissacrante creatività di Elio e le Storie Tese, ai tanti talenti del jazz italiano dal maestro Fresu a Gianluca Petrella.

Puoi indicare tre brani, italiani o stranieri, che ti hanno influenzato particolarmente?

“Zimbabwe” di Miles Davis

“Actual Proof” di Herbie Hancock

“Zombie” di Fela Kuti

Ju Bhota traccia per traccia

ju bhotaLa prima traccia del disco è Caballero Efo’, un viaggio che ha qualcosa di mistico, qualcosa di elettronico e qualcosa di ancestrale in una procedura d’attracco operata principalmente attraverso i percorsi delle tastiere, con i Caraibi e l’Africa come orizzonti non troppo lontani.

Tonalità più algide quelle di Soulnet, che fa entrare sensazioni sintetiche, controbilanciandole con la chitarra funk e le percussioni etniche. Omolodde, dopo i suoni scintillanti e le percussioni che aprono il pezzo, procede su ritmi movimentati ma tutto sommato ovattati.

Si passa poi a una più nervosa Subway, che dopo la voce introduttiva si scatena in dialoghi tra chitarra funky e tastiere vintage. Qualche dose di cattiveria in più si incontra in Deep Water, in cui la chitarra si occupa di tracciare qualche confine, ruggendo un po’. Il disco chiude con Kali Yuga, la title track, che torna al funk, mediandolo però con idee jazz e progressive, in un turbinio veloce, potente e fluido.

Buona esperienza, quella di Ju Bhota, che mescola con agio sonorità di origine diversa, ottenendo miscele molto interessanti e ben eseguite.

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