La recensione: “Apocalypse town”, The Gentlemen’s Agreement
Il terzo album di The Gentlemen’s Agreement, “Apocalypse Town“, esce mercoledì 9 aprile. E si tratta di un lavoro estremamente interessante per svariati motivi. Tanto per cominciare, per il suo contenuto: il gruppo napoletano, da sempre aperto ad avventure piuttosto notevoli, ha realizzato un concept album dedicato alla vita della fabbrica.
Il disco racconta, tra ritmi sudamericani e frenetiche danze di macchine impazzite, di un operaio che capisce che quello che la catena di montaggio gli offre non vale la sua vita, e riesce a lasciarsela alle spalle. Il disco è notevole anche perché è stato realizzato grazie al baratto: non al crowdfunding, che prevede una raccolta di denaro, ma proprio con l’antico concetto del baratto.
Per esempio, la band ha lavorato per un mese alla costruzione di una delle sale di ripresa dello studio SudEst di Campi, in provincia di Lecce, in cambio di un mese di registrazione. Del resto, a pubblicare l’album è l’etichetta Subcava Sonora, cioè la prima etichetta italiana ad aver rinunciato alla Siae e a pubblicare tutta la propria musica in Creative Commons.
Tornando all’aspetto più propriamente musicale, non sappiamo dire se sia tornato di moda il concept album, come negli anni Settanta, ma è indubbio che, previa una ripulita e una riverniciata, alcune band abbiano scoperto la potenza e la versatilità di uno strumento del genere, non a caso utilizzato anche da band molto lontane tra loro.
All’interno di Apocalypse Town (la cui copertina è la minuscola capocchia di una vite su campo completamente bianco) ci sono quattro movimenti strumentali che vanno sotto il nome collettivo di Leitmotiv e che fungono da raccordo sottolineando i rumori cupi e inquietanti dell’immensa fabbrica.
Dopo il primo Leitmotiv parte Moloch!: dopo la rumoristica della catena di montaggio, il coro celebra: “la grande fabbrica/sarà la tua divinità”. Le oscurità della monotonia industriale sono sottolineate dalle percussioni, ma la voce e gli altri strumenti si permettono qualche svolazzo, come un fischio molto “morriconiano”.
Su ritmi di reggae nasce la riflessione calma de Il Milione, in cui si affacciano i primi pensieri di fuga. Dire…Direttore è il singolo: il martellante ritornello su tempi da ballo sudamericano dà vita a un pezzo ironico ma anche calato nella realtà come un coltello nella carne. Rumore sui Rumuori si muove tra sonorità cupe e ovattate. A emergere alla fine sono comunque le macchine, le vere protagoniste del disco.
Mordi! Prendi! Vivi! cita apertamente i Velvet Underground anche se la tessitura del pezzo è a molti strati, con fiati e voce filtrata a sostenere un pezzo molto veloce. KABOOM! Chiude la fabbrica inneggia alla fuga dalla città, ma anche in questo caso c’è frenesia, su ritmi quasi da samba che però finisce in tarantella o giù di lì.
I piedi lo sanno disegna su atmosfere molto anni Settanta: i collegamenti con la Pfm o con il Banco di Mutuo Soccorso non saltano all’occhio soltanto per la scelta del concept, ma anche per sonorità come quelle di questa canzone. E se Adeus celebra la sacralità della terra, Come l’acqua approda a una più serena considerazione quasi eraclitea: “tutto/scorre/tutto/passa/nulla/muore mai”. La musica si anima di fiati e di prospettive differenti. Il tempo del sogno avvia un discorso voce e chitarra, ma raggiunge presto la dimensione onirica, che rappresenta la definitiva liberazione dell’ex operaio.
Gli strumenti che The Gentlemen’s Agreement usano sono piuttosto semplici: i ritmi possono essere quelli delle feste di paese, l’uso della voce è creativo, le percussioni sono direttamente fornite, spesso, da vere macchine come trapani o macina bulloni. Da notare anche la capacità della band di costruirsi strumenti propri, con l’aiuto di Peppe Treccia.
Karl Marx è morto, Henry Ford è morto, comunismo e capitalismo si sono cannoneggiati e sono morti. Ciò che rimane è la fabbrica, alienante almeno quanto quella di Charlie Chaplin. Ma The Gentlemen’s Agreement indicano che una via d’uscita c’è, basta non chiudere gli occhi.