Cover_The Eternal Dreamer_Credits Valentina Indelicato_bMarco Selvaggio è un artista dell’hang, lo strumento idiofono nato in Svizzera una manciata di anni fa, che può sorprendere per le sonorità sognanti ed evocative.

Non è un caso perciò se il suo disco si intitola The Eternal Dreamer: un lavoro composto con l’aiuto di numerosi artisti internazionali che spaziano dal folk al jazz, e con la produzione di Toni Carbone, bassista dei Denovo (qui l’intervista che abbiamo fatto con Selvaggio).

Il disco sarà presentato ufficialmente giovedì 11 dicembre al Centro Zo di Catania (Piazzale Asia, 6 – Inizio concerto ore 21.00 – Ingresso libero) con un live che vedrà la partecipazione di alcuni artisti che hanno collaborato al disco tra cui The Niro, Anne Ducros, Hazel Tratt e Haydn Cox.

Si parte con Lybra, pezzo strumentale che introduce subito alle risonanze sognanti dell’hang e a quello che sarà l’umore prevalente del disco: prevalente, anche se non uniforme, visto che non si tratta di un disco monocorde.

Lo conferma la title track, The Eternal Dreamer, con la voce di Daniel Martin Moore, pezzo molto morbido e melodico che cancella le inquietudini del brano precedente.

Ancor più melodico l’approccio di Someday, che alla voce vede Dan Davidson dei Tupelo Honey. Anche Moonlight propone morbidezze assortite, con la partecipazione di Haydn Cox, ma il ritmo si alza un po’.

Nuage Dansant, con Anne Ducros, si muove in territori più vicini al jazz (senza mai varcare il confine) procedendo sul percorso con una certa eleganza.

Di nuovo strumentale Etna, che si muove su un “riff” di hang e che però si avvicina a concetti della musica ambient, senza anche in questo caso spingersi molto al di là del confine.

Si torna in territorio apertamente pop con Like the Sun, in cui la voce è quella di Sidsel. Tell Me Now, con The Niro, si muove su idee semplici e morbide.

It’s Just a Star con la voce di Hazel Tratt disegna geometrie soft su sonorità che fanno pensare all’easy listening anni Settanta. Si chiude con Palm Street,

Va ascritto a merito di Marco Selvaggio il fatto di non aver imperniato l’album esclusivamente sul proprio strumento, come fanno alcuni chitarristi interessati soltanto a esibire i propri virtuosismi.

A onor del vero va anche detto che nei brani strumentali, quando non è “obbligato” dai lacci della melodia pop e del cantato, il disco dà il meglio di sé, con maggiore inventiva e minori soluzioni standardizzate.