La parte migliore del tenere un blog di musica indipendente su internet non sono i soldi: lo dico per la cronaca e per scoraggiare eventuali emuli.
No, la parte migliore si materializza quando ti arriva, diciamo, sulla scrivania virtuale il disco di qualcuno di cui non conosci quasi nulla, magari con un nome un po’ curioso o buffo, inizi ad ascoltare con tutta la disillusione di cui sei capace, e scopri di avere in mano “un disco”. Non una raccoltina di canzoni, non un esperimento, non un embrione. Un disco.
E’ capitato anche con Songs for Takeda, di Letlo Vin (qui la recensione). Ecco le domande che gli abbiamo rivolto.
Puoi raccontarmi la tua storia?
La mia è la storia di qualsiasi altro ragazzo di provincia che dedica la sua vita alla musica. A 13 anni sono rimasto folgorato dalla potenza comunicativa del rock, che evoca da sempre libertà, fuga e ribellione, ma anche senso di colpa, pentimento e desiderio di redenzione: tutti temi con cui ai tempi (ma forse anche ora…) andavo a nozze!
Accadde grazie a una vecchia cassetta trovata a casa di mio zio: The River, capolavoro di Bruce Springsteen. Poco dopo mi sono armato di chitarra, mi sono unito a una band e da allora non ho (quasi) più smesso di suonare.
Immagino che intraprendere la scrittura di un album attorno alla vicenda del suicidio di un amico sia un’operazione che vada al di là del musicale, dello psicologico… Come hai deciso di affrontare la vicenda e che tipo di esperienza è stata, visto che ci hai impiegato ben quattro anni?
Poco dopo la morte di Takeda mi sono ibernato per almeno 4 anni. Ma la musica ha sempre avuto l’effetto di una seduta dallo psicologo, per me… ed è esattamente in quel modo che ho cominciato a ricostruire la storia…per capirci qualcosa, per farmene una ragione.
Le canzoni sono quindi uscite spontaneamente con l’unico obiettivo di buttare fuori tutto il dolore che avevo provato, piuttosto che tenerlo dentro e impazzire.
La totale assenza di pianificazione o finalizzazione in fase compositiva, ha fatto in modo che me ne fregassi delle mode, di chi fossero i destinatari di quello che creavo e di cosa me ne sarei fatto.
Per la prima volta, invece, mi sono sentito veramente libero di usare il linguaggio musicale che conosco meglio, legato ai miei primi ascolti. E’ stato quindi anche una sorta di ritorno alle origini.
Credo che le influenze sonore sul tuo disco percorrano un ventaglio che va da Cohen a Bon Iver, passando per lo Springsteen di Nebraska e per altri nomi eccellenti. I tuoi ascolti abituali sono questi? O c’è qualcuno di più sorprendente?
Ascolto un sacco di Soul: Sam Cooke, Etta James, Aretha Franklin, Percy Sledge… Amo la cultura afroamericana, per cui anche l’hip hop.
Nel 2013 è uscito “Child of Lov”, disco omonimo…ascoltatelo se non siete solo fissati con l’indierock… il tipo è già morto dopo il primo album ma secondo me ha lasciato un piccolo gioiello…
Riallacciandomi alla questione precedente, questo disco segue la traccia delle sonorità del folk-rock americano. E’ stata una scelta dettata principalmente dal tipo di canzoni che hai scritto per questo album, oppure il tuo orizzonte sonoro, più o meno, rimarrà questo anche nel prossimo futuro?
Spero di andare sempre di più verso il gospel e, appunto, il soul… vorrei la pelle nera, insomma!
La cosa curiosa è che sta uscendo il mio primo album ma io ho già pronto il secondo, e sto scrivendo le prime canzoni del terzo. Ovvio quindi che ci sarà un filo conduttore, che comunque seguirà quello che avrò voglia di fare e null’altro.
Hai già suonato dal vivo in apertura ad artisti già affermati. Hai già pensato alla dimensione dal vivo per le canzoni del disco? Le hai già “rodate” sul palco oppure si tratterà di un esordio anche da quel punto di vista?
Uscito finalmente dalla grotta 3 anni fa, ho chiesto a due amici di sempre, Rahim e Bronco, di darmi una mano a portare in giro questa cosa.
Detto fatto, in giro di pochi mesi abbiamo messo in piedi lo spettacolo e abbiamo fatto più di 60 concerti senza nemmeno un singolo o un ep…
Credo che quello che ha colpito gli organizzatori, a parte la musica (spero!) è il fatto che noi siamo in tre ma suoniamo due/tre strumenti contemporaneamente ciascuno, compresi quelli non proprio tradizionali nel rock, come il cajon, l’ukulele basso, la stompbox, il kazoo, il flauto traverso, il foot tambourine…e ognuno di noi canta…
Insomma, avevano una band da sei elementi sul palco ma dovevano dar da mangiare solo a 3! Continueremo con questa formazione anche per il tour di “Songs for Takeda”, anche se il mio sogno è aggiungere un coro gospel alle spalle…prima o poi ci riuscirò!
