Sono in tre, sono pugliesi (sarà rimasto qualche pugliese giovane che non fa musica indie, in giro?) e sono The Whip Hand: hanno già vinto premi e ricevuto segnalazioni prestigiose, nonché la nostra recensione per il loro nuovo disco, Wavefold (la si può leggere qui). Li abbiamo intervistati.

Vorrei conoscere la storia della vostra band.

La band nasce agli inizi del 2012 sotto una veste differente rispetto a quella attuale. La prima formazione vedeva Tony al basso e Gianni alla chitarra. L’idea iniziale era quella di un contesto più tranquillo, senza distorsioni, con una drum machine, basso e chitarra. Alla XX.

La situazione “drum machine” non è mai andata in porto quindi Tony passò alle percussioni (timpano e rullante) e alla voce e per i primi mesi venne inserita una bassista.

Dopo poco, a settembre, arriva Francesco al basso e la formazione si presenta come la vedete oggi. Lo stile cambia, le composizioni successive sono più crude, distorte e oscure.

Mi sembra che nel disco convivano due anime diverse, una più dark/new wave e un’altra più vicina al punk. Questa dualità risponde in qualche modo ai vostri gusti personali e ai vostri ascolti?

Esattamente. Anzi, le anime sarebbero addirittura tre. Una per ognuno di noi. Lo shoegaze/noise che influenza Gianni, gli ascolti dark/wave di Francesco e l’energia dell’ hardcore manifestata da Tony. Tre stili che trovano un punto in comune in quelle che sono le canzoni dei Whip Hand.

L’unico testo che non avete scritto voi direttamente è quello di “Falling”: vorrei sapere come nasce questa canzone e se avete avuto problemi di adattamento a materiale scritto da altri.

Per quanto riguarda il testo di “Falling” abbiamo provato uno dei tanti testi della nostra amica Arianna, quello che sembrava più adatto a quel tipo di base, che portasse dentro i medesimi stati d’animo. L’adattamento alla musica è stato abbastanza naturale.

Mi ha incuriosito molto quello che avete scritto in sede di presentazione del disco riguardo al breve miraggio di T.S. Eliot che si rispecchia nel disco. Oltre a rendervi il giusto omaggio (anche perché dove li trovo altri 23enni che citano T.S. Eliot?) vorrei che spiegaste meglio la questione.

Crediamo che la polisemia ( = pluralità di significati) legata alla parola “onda” sia riflessa nel lavoro, e “Death By Water” rispecchia il momento in cui l’acqua è costretta/invitata a distruggere la vita. Il “rigenerare”, distruggere PER qualcosa è un passo successivo, ma non assicurato, questo elemento ci ha affascinati.

È un’ambiguità che si riflette in tutto, in fondo viviamo su una parte molto piccola di questo pianeta, e per quanto ci si possa dire amanti dell’acqua e per quanto sia all’acqua che dobbiamo la nostra vita, è pur vero che nell’acqua ci sia molta più vita che al di fuori di essa.

Il modo in cui Eliot fa “annegare” il mondo che narra è torbido, subdolo, sostanzialmente privo di quel “dopo” (morire per creare nuova vita) cui uno potrebbe appigliarsi: il nostro percorso non si esaurisce lì e non è una narrazione, ma è una chiave di lettura del nostro lavoro, e ci ha fatto impressione pensarci a disco terminato.

Avete già condiviso il palco con alcune realtà importanti dell’indie rock italiano. Vorrei sapere che tipo di esperienze sono state e se siete riusciti a carpire qualche indicazione da riutilizzare nei vostri live.

Ci sono state occasioni in cui abbiamo suonato con artisti che sono sulla scena da più tempo di noi, sicuramente delle belle esperienze. Il bello di questi “confronti” è proprio la crescita che ne scaturisce… l’apprendere cose da chi è più in alto di noi, senza comunque mai perdere di vista la personalità propria della nostra band (al massimo rafforzandola).

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