Paolo Cantù è uno dei nomi importanti della musica italiana, in virtù della partecipazione a progetti come Tasaday, A Short Apnea, Uncode  Duel, Six Minute War Madness, Afterhours.

Quando suona da solo, Paolo diventa Makhno e si cimenta pressoché con ogni strumento che gli possa capitare in mano, com’è capitato con The Third Season, disco che può contare su otto tracce in cui noise, post rock, industrial si fondono in una colata sonora quasi omogenea.

The Book of the year, che apre il disco, potrebbe essere da un certo punto di vista una parodia distorta di una canzone rock: ritmi accelerati e qualcosa che assomiglia a bridge, ritornello, assolo. Ma tutto suona filtrato, accelerato, distorto.

Per non mai dimenticarmi disegna i propri tracciati elettrici attorno a un battito accelerato e molto insistito. I dreamed I saw Mark P last night ha ritmi più contenuti ma un lavoro di tessitura altrettanto cospicuo.

Avevo cose da dire, curiosamente, ricorre al cantato per parlare di incomunicabilità (la voce è quella di Federico Ciappini, l’unico ammesso a violare il solipsismo di Cantù).

Die Gedanken sind frei (cioè “I pensieri sono liberi”, riferimento a una canzone tedesca di inizio Ottocento) apre il lato B del disco (pubblicato in vinile 12″) con una progressione tenace e continua.

Nobody knows when you’re down and out prova a cambiare orizzonte, con un inizio quasi sommesso e un suono di chitarra un po’ meno sporco.

Perciò è quasi normale che le cose si aggroviglino in Don’t let the olive branch fall from my hand, citazione da un antico discorso di Yasser Arafat alle Nazioni Unite, contornato da contorsioni sonore particolarmente caotiche.

Più contenuto il noise di Cerambice, lunga sessione finale a base di fluidi sonori, acidità di chitarra e tosse insistita.

Incide nel vivo, Paolo Cantù, e anche in ciò che vivo non è ma potrebbe sembrare: tra citazioni curiose e panorami sonori per lo più inquietanti, consegna alle stampe un disco molto turbato ma anche di concreto interesse.

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