Nicolò Carnesi: la nostalgia del futuro e gli spazi piccoli

Sta per partire il tour di presentazione di Ho bisogno di dirti domani, il nuovo disco di inediti di Nicolò Carnesi. Un disco che ha come concetto base il tempo ma che, come sempre con le canzoni del cantautore siciliano, si nasconde anche negli spazi piccoli per raccontare storie intime, spesso in modo raffinato. Lo abbiamo intervistato.

Perché un disco sul tempo?

Il primo episodio in cui il tempo è stato chiaramente protagonista è stato proprio con la prima canzone, Un giorno di pesche. La proiezione verso il passato che crea un po’ questa sensazione di nostalgia verso qualcosa che è stato, ma allo stesso tempo è anche, paradossalmente, nostalgia del futuro, di qualcosa che vorresti ricreare, in base a come l’hai vissuta, mi ha fatto capire che poteva essere interessante affrontare attraverso le canzoni, attraverso delle storie, il discorso temporale.

Più che altro la costante proiezione che abbiamo nella nostra mente. Il fatto che non riusciamo mai effettivamente a viverci un presente concreto ma che stiamo sempre a viaggiare da un punto all’altro con i sentimenti. Da qui ho incominciato a sviluppare questo tema che si è concluso soltanto con l’ultima traccia che è Il passato, che diventa un po’ una chiusura del cerchio, anche l’accettazione di tutto quello che accade all’interno, che poi è anche incentrato sul nostro presente, quello che potrebbe essere l’anno scorso o anche quest’anno.

Rispetto ai dischi precedenti ci sono state differenze di lavoro, ispirazione oppure è stata una continuazione?

Per certi versi è una continuazione perché cerco di portare avanti un discorso, un mio modo di raccontare attraverso la musica quello che osservo e che vivo. Poi sicuramente i metodi cambiano, per esempio per questo disco ho scritto quasi tutto al piano, cosa che non avevo mai fatto, tendevo più a utilizzare la chitarra.

Questa volta ho deciso di fare tutta la preproduzione nel mio studio, con le mie cose insieme all’altro produttore artistico che è Donato Di Trapani, con cui abbiamo lavorato parecchio su tutti i suoni, i synth. Abbiamo dato il vestito alle canzoni e solo dopo siamo andati in studio a registrare. Ed è una casa che non avevo mai fatto in questa maniera.

Tendenzialmente avevo delle canzoni, dei provini, per scrivere ho sempre bisogno anche di arrangiare, di mettere giù tutti gli strumenti, però in modo molto approssimativo e poi si andava in studio e si faceva una lunga tranche lì.

Questa volta mi sono detto che il tempo era necessario anche per un singolo suono, quindi l’unico modo per affrontare questa problematica del tempo, anche quello economico per esempio, perché il tempo può essere ovviamente riconducibile a qualsiasi cosa, è stato di metterci qua e di imballare la stanza di macchine e abbiamo lavorato a tutti i suoni. E la maggior parte dei synth e delle chitarre sono tutte fatte da me.

L’autotune fa subito trap e non mi sembri molto vicino al genere… Come ti è venuta l’idea di usarlo soprattutto nella title track del disco?

Be’ diciamo che fa trap ora nel 2019, io mi ricordo benissimo Cher con un autotune potentissimo, e un disco come Discovery dei Daft Punk parte con un pezzo all’autotune… E’ un effetto, è come se ora dicessero a un rocker: “Che fai, usi il distorsore della chitarra, è così bella pulita…”

E’ un mezzo per dare un timbro alla tua voce. Io mi diverto molto a utilizzarlo anche perché mi permette di cantare in una maniera diversa. Per questo nel mio caso lo metto “forte”, non è un problema di un’intonazione, perché si usa anche per aggiustare le parti che non vengono benissimo… Che poi ci sta anche, io non sono un fissato delle regole, anzi, è meglio distruggerle e cercare sempre, solo nell’arte, di andare avanti.

Diciamo che l’ispirazione non è stata di sicuro la trap ma l’utilizzo che ne può fare un James Blake o Bon Iver, questo modo di scrivere canzoni però moderne. Volevo semplicemente mettere nella canzone d’autore qualcosa di diverso rispetto al solito, anche perché poi bilancio con una canzone canonica come Turisti d’appartamento. Volevo che la narrazione fosse piena di andirivieni, non sempre lineare, anche per sorprendere chi ascolta.

Secondo me nei trapper e simili (perché ci vedo anche un determinato tipo di pop indie) la caratteristica più riconoscibile non è tanto l’autotune, in realtà è il loro modo di biascicare le parole che lo rende riconoscibile, il modo di allargare le vocali. L’autotune è sotto ma ci siamo abituati nel rap, ma è questo modo che hanno di cantare che li rende riconoscibili e devo dire a mio parere in molti casi di una banalità incredibile, tanto che mi annoio da morire ad ascoltarli. Soprattutto quelli più “leggeri”…

Mi sembra che oltre al tempo, anche lo spazio sia un argomento importante del disco, ma soprattutto gli spazi piccoli, che tutto sommato sono una tua caratteristica fin da Ho una galassia nell’armadio. Ci sono degli spazi o delle città che ti ispirano particolarmente?

Gli spazi piccoli sono molto vicini al mio modo di essere. Io fondamentalmente sono un pigro che tende a stare tantissimo a casa. E’ piccola la stanza dove si trova per esempio il mio studio, in cui sono esattamente in questo momento; qui ho tutti i miei strumenti, ho il divano dove posso leggere i miei libri, guardare tutti i film che voglio, è la mia comfort zone.

Poi a un certo punto sento sempre il bisogno di allargare un attimo i miei spazi e allora, che ne so, sono andato a vivere a Milano, ho fatto varie esperienze anche fuori. Sicuramente sono esperienze che poi ti porti come bagaglio culturale e finiscono nelle canzoni. Però non c’è una città dove vado e subito mi scocca qualcosa, è sempre un processo postumo. Qualcosa che succede dopo.

Per metabolizzare ho sempre bisogno di tornare qui. Non so se è del tutto una cosa positiva perché devo proprio staccare qualsiasi cosa io stia facendo, tornare in Sicilia, andare nel mio paese che è piccolissimo, rinchiudermi nel mio studio che è ancora più piccolo e allora lì riesco a mettere giù tutto. Ci riflettevo e non credo che sia una cosa positiva perché nei tempi morti dovresti in realtà curare tante altre cose e io invece riesco soltanto a dedicarmi a quello.

Questo è un problema che devo affrontare nei prossimi mesi e anni e capire se è l’unico modo che ho per scrivere o se riesco a trovare una soluzione in spazi più ampi.

Nicolò Carnesi: schiavi degli algoritmi

Mi ha colpito particolarmente Amore capitale. Vorrei sapere qualcosa di più sulla genesi del brano.

Amore capitale si basa su un concetto abbastanza semplice, che è quello della scelta. La scelta al giorno d’oggi. Ho usato proprio lo stratagemma dell’amore, perché è qualcosa che viene idealizzato e messo sopra un piedistallo, proprio per raccontare il paradosso dei nostri tempi.

Nella scelta perfino di un partner comunque ultimamente, lo vedo tantissimo anche tra gli amici, l’algoritmo ha un’importanza fondamentale. Questo mi ha anche un po’ inquietato e spaventato quando me ne sono reso conto. Tanto che questo amore diventa “capitale” come se fosse una pena, dal mio punto di vista.

La tendenza del nostro tempo a non scegliere più è decisamente inquietante. Lo facciamo anche in cose più piccole, per esempio la musica, siamo schiavi di algoritmi, abbiamo la possibilità con un minimo di consapevolezza di aggirare il problema ma è chiaro che proiettandoci verso il futuro questa cosa potrebbe diventare incontrollabile.

Faccio riferimento anche all’idea generale di questo libro, 21 lezioni per il XXI secolo di Yuvan Noah Harari, molto incentrato sulla nostra epoca ma che a un certo punto immagina anche le fasi successive a quello che sta accadendo adesso. Alcune cose sono secondo me molto verosimili e anche spaventose.

Amore capitale nasce da quest’ansia per la mancanza di scelta e la perdita di un po’ di umanità. Poi musicalmente era uno sfogo, si sente perché è un’unica strofa, con un bridge in mezzo, ma è un unico racconto, flusso di coscienza, senza ritornelli, però era giusto raccontarla così, senza giocare con la struttura.

A quanto dici nella presentazione, alla base del discorso del tempo c’è anche il problema dell’ansia. Sei un ansioso diciamo più della media di questa generazione?

Sì sì io un sacco, da tanto tempo. Su di me ha un’influenza fondamentale, io ormai ci convivo in maniera anche abbastanza tranquilla perché ho imparato ad affrontare i suoi effetti in alcuni momenti. Quando non riesci a controllare sfociano in attacchi di panico e questa è una cosa che per fortuna al momento mi sono lasciato alle spalle.

Quando impari proprio a convivere con qualcosa, anche perché spesso non ti spieghi neanche il perché ti senti così eppure è proprio il tuo corpo che lo comunica. Allora lì non devi cercare di combartterlo, perché diventa ancora più stressante, a quel punto la accetti. Impari a gestire i suoi sintomi e i suoi modi, perché per ognuno poi sono diversi. Tranne un paio di cose fisiche simili per tutti.

Poi diventa anche un’arma a tuo favore. Per scrivere l’ansia nel mio caso è fondamentale. Non è mai un’ansia del tipo: “Voglio finire entro tot perché ho delle consegne”, perché non imposto mai il lavoro in questa maniera. Però è proprio la sensazione. Diventa terapeutica la scrittura: in genere quando finisco una canzone nei giorni successivi sto molto meglio.

Però ti permette di non staccare mai. E di non essere mai comunque secondo me del tutto banale. O piuttosto: capita di scrivere cose che non ti piacciono però dal mio punto di vista, quando finisco una cosa e sto bene, mi rendo conto che mi piace, in quel caso aiuta. Poi ciascuno può valutare se piace o meno, ma all’inizio è una cosa fra te e te.

E’ una condizione precaria a cui ti devi abituare. Ci saranno dei giorni in cui non andrà benissimo e dovrai affrontarli in maniera diversa, lo sappiamo, è così. La rassegnazione anche secondo me è un sentimento molto bello e molto sottovalutato…

Sei in partenza per il tour. Che cosa ci si può aspettare dai tuoi nuovi concerti? E anche questo è un fattore di ansia?

Mi ricordo che con lo scorso tour, quello di Bellissima noia, non volevo nemmeno andarci. Ero in paranoia totale, avevo gli incubi di tornare sul palco, perché poi non suonavo da parecchio, da due anni.

Più o meno la stessa distanza di tempo di oggi, anche se ho fatto più cose diverse nel mentre. Stavolta però non provo quella stessa sensazione, anzi ho molta voglia di portare in giro queste canzoni, anche perché sono felice della resa, uscita dalle prove e dall’allestimento. Secondo me il concerto è molto bello anche se è impegnativo per me e sono molto emozionato.

Perché avere quattro dischi e racchiudere tutto in una scaletta, in una narrazione che ho cercato di impostare con un fil rouge preciso tra le canzoni, anche quelle vecchie. Soprattutto per dare quella sensazione alla fine, prima dell’eventuale bis, di aver lasciato qualcosa a livello narrativo. Sia attraverso la musica sia attraverso le parole.

La speranza nell’aver preparato questa cosa è questa, che possa essere interessante ovviamente se si segue bene, perché sono tutte connessioni minime fra le cose, però io essendo un nerd me le sono fatte tutte in mente… Musicalmente, tutto è impostato con la band, ci sono i synth, ci sono i momenti acustici, penso sarà divertente.

Non so io se sarò simpatico… Devo capire in che stato mentale sono. Perché ci sono volte in cui non smetto di parlare e fare battute e altre in cui non riesco nemmeno a parlare. Anche lì è tutto strano. Una cosa che ho notato del posto in cui viviamo è la tendenza del pubblico, guardando un artista italiano, soprattutto a livello medio, mentre quando ci sono i palchi giganti c’è la distanza, ci si aspetta una sorta di coinvolgimento sempre anche attraverso la battuta, l’essere un po’ piacioni…

Perché siamo il popolo delle commedie. E questa è una cosa che mi vivo in maniera contrastante perché a me piace quando vedo un gruppo straniero che non spiccica una parola e fa solo musica. Io invece vivo questa cosa, come ogni cosa nella mia vita, in maniera molto contraddittoria.

Se da un lato penso che questo sarebbe il momento giusto per fare un concerto in cui dici due cose e poi fai parlare la musica, dall’altra mi rendo conto che se vedo che in questo modo il pubblico si allontata poi mi verrà naturale fare delle battute e rovinare la cosa, perché devo metterci di mezzo la simpatia…

Questa è una cosa che vorrei imparare a gestire bene, essere forte in una scelta. Però è difficile. Ne ho parlato anche con tanti colleghi e amici e non è una sensazione solo mia. L’assurdità è che tu non possa fare come vuoi. D’altronde le persone vengono a vederti e a sentirti perché stai facendo la tua musica. Io ancora non so come andrà la cosa. Possiamo fare un’intervista alla fine del tour e ti dico com’è andata a finire!

Nicolò Carnesi – le date del tour

09/11 Torino, sPAZIO 211

23/11 Bologna, Covo

24/11 Milano, Ohibò

29/11 Pisa, Lumiere

30/11 Roma, Monk

13/12 Rende (CS) – Mood Social Club

14/12 Taranto, Mercato Nuovo

25/12 Palermo, I Candelai

29/12 Messina, Retronouveau

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