Il Fabrique di Milano è davvero pieno per quello che si annuncia come un arrivederci piuttosto consistente: Omar Pedrini porta in giro per l’ultima volta per intero Viaggio senza vento, disco storico e molto amato dei Timoria, pubblicato il 12 ottobre 1993, prodotto da Angelo Carrara e ricco di ospiti di prestigio.
Il disco probabilmente più significativo della carriera della band bresciana, ormai incarnata sostanzialmente dal solo Pedrini, viste le direzioni diverse prese dagli altri membri della band. E incarnata non senza fatica, considerati i problemi di salute che lo stesso Omar ha dovuto affrontare nel corso degli anni.
Ma questa sera è tutto bello, tutto funziona, tutto è energia e ricordo, con molta emozione. E’ l’ultima tappa e sembra che tutto congiuri affinché sia anche la più significativa, condita da un bagno di folla notevole, con molti capelli bianchi anche in prima fila, attaccati alla transenna.
La serata ha avuto un lungo prologo con la proiezione del docufilm Lawrence. A Life in poetry di Giada Diano ed Elisa Polimeni, su e con Lawrence Ferlinghetti, e le esibizioni di dj Duli e dj Joao.
Omar Pedrini: incomincia il viaggio di Joe
E poi ecco Pedrini, giacca di pelle e capello al vento come da copione, attorniato da musicisti giovani o giovanissimi, come già a voler tracciare linee che continueranno anche oltre. La tracklist del concerto è quella del disco, su per giù, con qualche salto: il viaggio di Joe incomincia subito con un pezzo fortissimo come Senza vento, che entusiasma la folla fin dalle prime battute, con le luci che balzano qui e là.
E poco dopo, ecco già Sangue impazzito, con lo sfondo tutto rosso, che abbassa il volume per poi rialzarlo di colpo: le sensazioni sono subito robuste. Si punkeggia un po’ con Sono in down, che ricorda ulteriormente, qualora ce ne fosse bisogno, che si tratta di un concerto intimamente connesso con il rock degli anni Novanta.
Perché i pezzi suonano spesso sporchi, ci si trova anche con tre chitarre sul palco, le tastiere sanno di Seventies, lo show è muscolare, fisico, Omar salta, balla, si diverte, fa divertire, parla un sacco con tutti: i fan club, i musicisti, i collaboratori, gli amici, i parenti. E con Ensi, che sale sul palco a regalare scampoli di hip hop che dialogano e non vanno in contrasto, a ribadire la capacità di dialogare sempre con le realtà contemporanee.
Ed ecco poi uno dei momenti topici del concerto, Verso Oriente, con Eugenio Finardi e Mauro Pagani ad arricchire il duetto di poesia, malinconia, forza, voglia di ripartire. Poi ecco Lombardia e poi: “Mi sono permesso di fare le cose per bene”, dice Omar, prima di introdurre i cantanti delle tribute band dei Timoria che lo aiuteranno nella “canzone dell’amicizia”: Freedom. Vedi che alla fine le cover band possono anche essere “buone”, talvolta?
C’è Matteo Guarnaccia a esibirsi in un recitato che parla del rock e della sua vita sorprendente, poi Omar si mette a sventolare la bandiera della curva del Brescia e di lì arriva Il mercante dei sogni, poi La città del sole, poi Piove, tutti pezzi che sanno d’importante. Ma non ci si rilassa mai nella serata: ecco lo scrittore Nikolaj Lilin, quello di Educazione siberiana, sul palco che parla di quando scoprì i Timoria (“i Nirvana italiani”) dal suo “spacciatore di cassette”, dietro la cortina di ferro.
Ma è già tempo di suonare di nuovo, e arriva Come serpenti in amore, molto cantata, molto condivisa. Omar poi presenta Frankenstein dedicandola a Gianni Sassi della Cramps, una delle persone che hanno contribuito al disco e alla storia dei Timoria ma che non possono essere qui perché sono ormai al di là delle preoccupazioni mondane.
C’è Il guerriero a chiudere disco e scaletta, in un mix con So Lonely dei Police, a omaggiare i maestri, pur affermando la forza delle proprie canzoni. Ma non è veramente finita qui: quando rientra Omar fa leggere da Federico Spagnoli il racconto del carcerato che con la sua lettera ha ispirato Sole spento. Ed è commosso davvero, e non sarà neanche l’ultima volta.
Bis, commozione e cori da stadio
Impazzano i cori da stadio che lo spingono a mettere un po’ di rock su un “olé olé”, prima di attaccare Il cielo sopra Milano. Poi tocca a una cover molto sentita, quella di My My Hey Hey di Neil Young, introdotta parlando del testo che cita Elvis, Johnny Rotten, cui si aggiunge Kurt Cobain, altri numi tutelari nel cielo del rock, con una curiosa Union Jack dai colori italiani sullo sfondo.
Si arriva al finale con un vero “bis”: torna infatti Sangue impazzito, ma in versione differente. Omar ringrazia Max Lepore e poi introduce Le vibrazioni per cantare il brano, spiegando come, quando erano agli inizi, Francesco e gli altri stazionavano fuori dallo studio di registrazione, cercando di conoscere la band. Alla fine ci riuscirono, grazie a una bottiglia di vino. Sul palco anche Enrico Ghedi, il tastierista storico dei Timoria, fra il tripudio della folla.
Si parlava di vera commozione: Omar spiega che è l’ultima volta che farà questo disco per intero dal vivo ed è davvero a un passo dalle lacrime, ma il pubblico lo consola subito. Poi spiega che nella folla, insieme ai mille ospiti, a esponenti delle Iene, a tantissimi fan storici, ci sono anche suo padre e suo figlio.
Racconta che di recente ha fatto un “pit stop” che non è andato bene come sperava, perciò: “Non spaventatevi se mi fermo per un po’”. Poi toglie la maglia che indossa e ne esibisce una originale dei Timoria del ’93. Si chiude con un mega abbraccio generale, anzi due: uno sul palco, con anche i Punkreas che si sono imbucati. E uno metaforico, che gli appassionati di rock dedicano a Omar. Per una serata così, per una carriera così.