Recensione: Jarred, The Caveman “I’m Good If Yer Good”
Primo album del trio indie/folk Jarred, the Caveman: I’m Good If Yer Good è stato missato da Antonio Gramentieri in collaborazione con Franco Naddei e Andrea Scardovi. Il disco presenta parte da radici folk per sfociare in atmosfere indie. Per dare un’occhiata all’intervista che abbiamo fatto a Jarred, The Caveman puoi cliccare qui.
Partiti da punti opposti del globo terracqueo, Jarred, The Caveman si sono incontrati in Italia e hanno realizzato, nel 2013, il loro primo ep, Back into the Sinkin’ Ship, prima di mettere mano a un disco che mette in evidenza i punti forti del loro sound.
Jarred, The Caveman traccia per traccia
Dopo una rapida Intro si passa a Troubles, piuttosto gentile e tessuta su chitarra acustica ma non solo. Come succederà spesso nel resto del disco, il discorso parte molto morbido per poi animarsi, come se Jarred, The Caveman nascondessero dentro di sé la voglia di fare rumore, ma poi non riuscissero a contenerla troppo a lungo.
Nessun contenimento al contrario in She ain’t gonna come, dove all’essenzialità del folk si unisce un’animazione che si può associare al country americano oppure alla movimentata passione della musica di stampo celtico.
Interstate si rivolge a percussioni che hanno un vago sapore sintetico, con il chiaro intento di non confezionare la solita ballata “da viaggio”, anche se poi non ci si separa dalla tradizione in modo troppo importante.
All We Do è una ballata semplice ed essenziale che intreccia la chitarra a un drumming che sembra ricavato dal picchiare di un ramo su un albero. Still Burnin’ al contrario ha una ritmica molto più complessa e l’uso di echi ed effetti ne fanno un pezzo non così lineare, pop ma con orizzonti più vasti.
Molto più rustiche le idee di Red Wire, che pur contenendo un passaggio piuttosto oscuro e misterioso, si configura più che altro come una big band ballad, felice di se stessa.
Amelia parte piano per guadagnare forza e ritmo con il passare delle battute; poi si torna al “piano” come preludio di un nuovo “forte”. Like a Broken Toy al contrario rimane sommessa, con una voce leggermente filtrata, appoggiata con delicatezza su un tessuto melodico e acustico. Il finale si imbizzarrisce (a volte capita).
Non è sottovoce né per ritmica né per sonorità Morning Sun, capace di richiamare alla mente episodi di rock-folk anglosassone molto antichi (i Deacon Blue di Wages Day, per esempio). Arriva anche la fanfare su un finale che sembra la chiusura ideale del disco. E invece no: ecco Which One To Lose, che ritorna a toni molto più moderati e melodici.
E’ vero che la band guarda con interesse ai risultati dell’indie, ma riesce a conservare la propria identità folk intatta, senza snaturare il senso e i punti di partenza della propria musica. Il risultato è senza dubbio gradevole, a volte ruspante, comunque molto vivo.
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