Dopo L’altra faccia della luna (Tataki Records) del 2021, i Carver tornano con “T.R.I.P.” un nuovo lavoro altrettanto cinematografico ma dalle tinte cangianti e psichedeliche.
La meditazione, William Burroughs e la beat generation, la depersonalizzazione, la psichedelia, i tea shops indiani, la musica ambient, il libro tibetano dei morti, la techno, le droghe, lo yoga, i monasteri buddisti. Funghi sacri, bagliori acquatici, abluzioni. “T.R.I.P.” è Il nuovo disco dei Carver, ed è il racconto battuto a macchina da scrivere di un lungo viaggio, con il piglio crudo, frenetico e malinconico della letteratura beat. Viaggio che parte dal Sowieso, un fumoso e sinistro locale di Berlino con le tappezzerie scrostate, ed approda nel subcontinente indiano, per un Hippie Trail del nuovo millennio. Dalle spiagge di Goa fino all’altopiano del Tibet, passando per la città santa di Varanasi e le caleidoscopiche vie di Kathmandu, registratore e taccuino in mano, alla ricerca di se stessi, di suoni, di storie, di canti, sogni, campane, visioni e silenzi. “T.R.I.P.” è un viaggio musicale che si snoda dagli anni novanta fino a questi ultimi anni dai colori stinti; ambient, acid house, trance, psichedelia, a rifuggire le terribili nevrosi urbane del disco precedente e lasciarsi andare al flusso trasognante di un mantra eterno e circolare
Carver traccia per traccia
Benché il nome della band faccia riferimento a uno scrittore molto “occidentale”, le idee del disco tirano proprio da parti opposte, come la lunga introduzione narrativa di Oriental Lodge si occupa di confermare fin dalle primissime battute.
Si transita per Kathmandu Freak Street, che parte piano e tradizionale ma subito indossa un beat sostanzialmente techno, diventando frenetica e poco controllabile.
Ma si passa presso a Sowieso, liquida e meditativa, che si allunga fino a quasi otto minuti ospitando al proprio interno dinamiche da ambient music, movimenti controllati, cori, campane tibetane e una lunga melodia avvolgente. Un recitato chiude la narrazione del brano, con uno stile che fa pensare ai CSI dei viaggi in Mongolia, più che ai Massimo Volume.
Sempre senza separare i brani, come si faceva nei dischi prog di un tempo, ecco crescere il battito di Magic Tea Shop, ora piuttosto soft. Di battiti e incisioni si ragiona su BBB (Black Bombay Beat), piuttosto propensa al clamore e alle atmosfere da club, che si accendono all’improvviso. Qui l’acido prende colori diversi, con esplorazioni che viaggiano dalla dance alle idee più dreamy.
E a questo proposito, ecco che si accende la Dream Machine: un altro tuffo in atmosfere decisamente liquide, anzi proprio bagnate, a lavare via residui troppo terreni. Il recitato ragiona delle vacche sacre che gironzolano in cerca di cibo nei mercati indiani.
Con T.W.A.D. (“The War Against Drugs”) si torna al club, per ballare su colori molto scuri e atmosfere cupe, quasi dark wave. Altro bagno in acque sacre, ecco Ganesha Jaya, remix di inni e canti che si alzano fino ai cieli indù.
Chiusura molto ventosa, quella che riserva Namobuddha (The Other Side of the Moon): una rivelazione finale, con evidenti richiami pinkfloydiani, che si leva con tranquillità ma anche con molta malinconia verso l’alto, con un sax impazzito a celebrare le migliaia di reincarnazioni che ci attendono tutti (forse, vi saprò dire).
Ad ascoltare soltanto questo disco, in effetti più che Carver potrebbero chiamarsi Borroughs, o eventualmente Kerouac (ma ci sono già progetti musicali con questi nomi). O anche Leary: la psichedelia, la fascinazione per l’Oriente, la meditazione e le sostanze psicotrope fanno viaggiare lungo un t.r.i.p. (ma per che cosa sta questo acronimo?) che ha poco a che fare con la concreta disperazione carveriana.
Tuttavia Carver è un bellissimo nome e t.r.i.p. un ottimo disco, ricco e completo, coerente dalla prima all’ultima nota benché ricco di deviazioni, di tentazioni, di esplorazioni. La psichedelia continua a proporre le proprie metempsicosi, presentandosi sempre con volti diversi ma sostanza simile. E la band si dimostra assolutamente all’altezza del compito, sdraiata sulle rive del Gange, a sognare infiniti se stessi persi nel tempo e nello spazio.