Si chiama Faber Nostrum ed è indubbiamente un’operazione meritoria: cominciamo con il mettere le cose in chiaro. Pur non essendo proprio un’idea inedita (si ricorda per esempio a metà anni Novanta un seminale tributo a Battiato, Battiato non Battiato, con Consoli, Venuti, Madonia, CSI, Yo Yo Mundi, La Crus, Bluvertigo).
Dopodiché maneggiare le canzoni di Fabrizio De André è operazione delicatissima: qui il discorso è affidato ai più bei nomi dell’indipendenza contemporanea. E, diciamo così, qualcuno si rivela più adatto e qualcuno meno.
Faber Nostrum traccia per traccia
Si parte da Sally e c’è Gazzelle a prestare la sua vocalità particolare a uno dei brani più amati di Faber. Forse un po’ troppo particolare, a dire il vero: il buon Flavio si mastica qualche sillaba e il brano perde qualche giro.
Da Genova a Genova, ecco gli Ex Otago, con Amore che vieni, amore che vai, successo antico e se vogliamo molto pop per le abitudini di De André. Gli Otaghi schioccano le dita e tutto sommato si inseriscono in continuità con la propria prestazione sanremese di Solo una canzone. Un po’ leggerina, ma dignitosa.
La prima botta vera arriva grazie a Willie Peyote e al basso de Il bombarolo. Va detto che se ti viene subito da pensare a Daniele Silvestri, non è un caso: canzone di lotta e non di governo, particolarmente adatta alla versione hip hop ma anche molto funk, è plastica nelle mani di Willie che la rende una delle vette assolute del disco.
Languida e romantica (e un po’ zuccherosa) la versione dei Canova, che allungano un po’ troppo le vocali de Il suonatore Jones.
Cimini e Lo Stato Sociale si cimentano, ricchi di synth e tastiere, con Canzone per l’estate, cercando di costruirle un’armatura sonora robusta. Il problema è che il risultato sembra un po’ a metà fra una canzone di Vasco e una di Cremonini. Di Faber qui è rimasto poco.
Cantato molto particolare quello su Inverno dei Ministri, uno dei brani scelti come singolo di presentazione della raccolta. Probabilmente è uno dei pezzi che hanno diviso di più, a livello di risposta. Ma che sia fatta con rispetto non c’è dubbio, con un crescendo orchestrale che ne fa un brano d’impatto.
Già nota anche la Canzone dell’amore perduto, versione Colapesce. Si va piuttosto sul semplice qui: l’ottimo Urciullo preferisce tenersi piuttosto aderente al dettato originale, addolcendolo giusto un po’, con il piano che apre e la chitarra acustica che prosegue il discorso, e qualche sapore sintetico appena accennato.
Si recupera energia con Se ti tagliassero a pezzetti, qui in versione The Leading Guy, probabilmente una delle sorprese maggiormente positive del disco. Non che si metta a inventare architetture particolari: il cuore della canzone è voce e chitarra, con sapori folk americani che per TLG sono sostanzialmente casa.
La voce forte di Motta si occupa, in modo solenne, di Verranno a chiederti del nostro amore. Qui il pianoforte e gli archi conferiscono maestosità a una canzone che era già importante di suo. Ma il cantautore toscano vince la prova e guarda De André negli occhi, senza troppa soggezione.
Scelta piuttosto aderente alle proprie sensibilità quella effettuata da La Municipàl, che scarica tutti i propri istinti (melo)drammatici e la sensibilità pop ne La canzone di Marinella, con il duetto vocale che risulta piuttosto suggestivo.
Forse non il più noto dell’elenco degli ospiti per una delle canzoni più complicate della raccolta: Fadi si occupa di Rimini, tutto sommato spaccata in due, tra una prima parte molto contenuta a livello vocale, e una seconda che strappa un po’.
Molto omogenei i suoni che The Zen Circus scelgono per Hotel Supramonte, con la voce di Appino che mostra tutta la qualità e la versatilità di cui dispone. Il brano – memoria del rapimento – non ha bisogno di sovrascritture, carico com’è di significato e di pathos. E gli Zen lo capiscono benissimo, lo lasciano semplice, aggiungono poco, lo sentono prima che interpretarlo.
Per questione di ritmi interni c’è bisogno di un po’ di leggerezza e sfrontatezza, ed ecco i Pinguini Tattici Nucleari che si mettono a navigare il Fiume Sand Creek, alla caccia di un dollaro d’argento, con qualche coro, un battito forte, alcune epifanie e un inciso sonoro blueseggiante. Tutto efficace e perfettamente nelle corde della band bergamasca.
La (qui) poco rappresentata scuola romana batte un colpo, anche se non con un nome notissimo, quello di Artù, cantautore celebre soprattutto per aver cantato un inedito di Rino Gaetano. E qui la prova è di quelle che fa tremare le vene e i polsi: i folletti di vetro del Cantico dei drogati saltano fra gli archi, ma la voce di Artù, spezzata al punto giusto, regge la prova difficilissima.
Vince abbastanza tutto però Vasco Brondi (sissignori, nessuna traccia più di luci e di centrali) con la finale Smisurata preghiera: non il brano più noto di De André né il più pop (a proposito, de La guerra di Piero si hanno notizie? Carlo Martello come sta? Don Raffaé sempre a prendere il caffè?). Il vasto programma di eternità e gli improbabili nomi di cantanti di tango prendono vita nell’atmosfera un po’ jazzata e un po’ psichedelica che Vasco sceglie come tappeto per la propria sentita interpretazione.
Diciamoci la verità: il cimento era davvero complicato. Ma andava fatto, in qualche modo: c’è un debito evidente che i cantautori di oggi (che si esibiscano in solitaria o in gruppo) hanno nei confronti di quelli di ieri, sicuramente De André ma anche Battisti, Dalla, Gaetano e via discorrendo.
Ed è anche giusto mettere canzoni complesse nelle mani di artisti schiettamente pop, non foss’altro che per vedere l’effetto che fa, come diceva un altro che con De André ebbe a che fare. E l’effetto complessivo è misto: in qualche caso strappa meraviglia, in qualche caso ti viene voglia di passare al brano successivo.