Un prato sintetico milanese, collocato nella terrazza di un piacevole appartamento in zona Porta Venezia, ospita conferenza stampa e showcase dei Fast Animals and Slow Kids. La band perugina presenta Animali notturni, il nuovo album grazie al quale, in un certo senso, raggiunge un primo grado di maturità artistica, sottolineato anche dal passaggio con una major (Warner) e con un cambio di sonorità orchestrato anche grazie a un produttore di grido (Matteo Cantaluppi). Se non sai ancora che cosa pensiamo del disco, che esce domani, puoi leggere la recensione qui.
“Sembra veramente un esame…” attacca Aimone Romizi, cantante e frontman a tutto tondo della band, mentre lui e gli altri tre membri del gruppo si accomodano su una panchina sotto il sole milanese un po’ incerto. E poi si incomincia ad andare a caccia di Animali notturni.
“Per il disco in realtà abbiamo seguito il nostro solito modus operandi. Noi abbiamo questa follia per cui quando il disco esce, dal mese successivo dobbiamo iniziare subito a comporre nuove canzoni perché se no vuol dire che la band è morta. E così abbiamo fatto: due anni fa è uscito Forse non è la felicità e da lì abbiamo subito ricominciato a comporre i pezzi”.
“Un po’ in sala prove, un po’ durante i soundcheck dei concerti, un po’ su Garage Band ci passavamo le robe. Così a un certo punto è uscito questo tot di canzoni, che in realtà all’inizio erano molte di più. E’ la prima volta che tagliamo un numero cospicuo di canzoni. Normalmente noi scriviamo i pezzi per “quel” disco. In questo caso ne abbiamo scritti molti molti di più, forse una ventina”.
“E’ stato un processo anche doloroso, in realtà. Ma che abbiamo fatto assieme anche ad altre persone, con Woodworm ma soprattutto con Cantaluppi che è la vera diversità rispetto a come abbiamo fatto i dischi. Per anni abbiamo comunque fatto i dischi “in famiglia”, in questa casa davanti al lago di Montepulciano, ci chiudevamo in noi stessi e registravamo”.
Uno slancio bello
“Quest’anno per la prima volta ci siamo affidati alle mani di un produttore. Ne abbiamo provati cinque prima di arrivare a lui. Abbiamo fatto delle prove, degli ascolti, è stato proprio un lavoro tosto, però questo ci ha dato anche uno slancio bello, perché per la prima volta abbiamo avuto una persona in più con cui confrontarci rispetto a tutto”.

“Quando scrivi una canzone è come togliere una parte di te e metterla da qualche parte. Quindi quando devi toglierla da un disco è come automutilarsi… In questo modo siamo riusciti a uscire da questo tunnel, a scegliere le canzoni giuste e soprattutto a produrle con un’idea che è sempre stata la nostra, quella di far suonare un pezzo come quello dei nostri idoli”.
“E per la prima volta secondo me ci siamo anche arrivati. Il suono di Animali notturni è un suono che ci soddisfa molto. Non so se si può dire che è un “bel suono” per tutti, ma a noi piace molto ed era quello che cercavamo”.
“C’è un po’ di brivido, un po’ di magia dietro a questo disco. Quando sentiamo che c’è l’ansia di farlo sentire dal vivo, di arrangiarlo in sala prove per il live, e stiamo diventando matti a farlo, perché c’è troppa roba… Questo vuol dire che c’è stato veramente un passaggio e che il passaggio è buono, ci dà vita”.
Scelte inconsapevoli
Nel frattempo il vento fa oscillare gli stendardi promozionali, generando qualche gag. E’ il turno di Alessandro Guercini, chitarrista, di raccontare qualche particolare in più.
“Man mano che scrivevamo capivamo qual era la direzione del disco. Quindi io riesco anche a ripensare a quali sono i primi sforzi nello scrivere il disco e a quali sono quelli finali. E riconosco in questo un determinato filo logico. Volevamo iniziare un nuovo corso con questo disco, ma l’abbiamo fatto inconsapevolmente. Una scelta inconsapevole, anche se è un controsenso”.
“Questo è un disco in cui noi diciamo “cuore”, “amore” – riprende Aimone – che sono termini stracomplessi, al limite. Posso essere usati in modo banale o al tempo stesso riuscire a farti dire quello che volevi comunicare. Questo è un esempio di come la comunicazione sia venuta istintiva, in modo che tutti la potessero capire. Quindi ne è uscito un disco che si sente che è dei Fast Animals, perché le influenze sono quelle, però oggettivamente suona un po’ diverso”.

Così si passa a parlare di pezzi vecchi e nuovi e dell’articolata genesi di Non potrei mai, che alla fine è diventato il primo singolo ma che non è sempre stato in cima ai pensieri della band.
“E’ stato uno dei primi pezzi che abbiamo scritto finito Forse non è la felicità, ma non ci convinceva per niente, a parte la strofa iniziale. Era tutto completamente diverso, aveva un altro ritornello. L’abbiamo ripreso quasi un anno dopo, però non ci convinceva, sembrava che qualcosa non suonasse in quel pezzo. Siamo andati avanti, scrivendo tutto il resto del disco. Poi ci siamo detti che questo pezzo era potente e gli abbiamo dato una seconda possibilità”.
“Abbiamo cambiato il ritornello, il bridge, tutto quanto, mantenendo soltanto la strofa. Quindi uno dei pezzi più vecchi è diventato il primo singolo del disco. Per il resto la canzone più recente che abbiamo scritto è Novecento, e si sente sia a livello di tematiche sia di suoni. Su quel pezzo ci sono trentadue linee di chitarra! Ci sono delle linee che sentiamo soltanto noi. Ce le abbiamo messe perché eravamo al massimo del “peccato”, della “hybris”.
“E abbiamo trovato un produttore che ci ha assecondato su tutto, a differenza di quello che credevamo. Noi ci immaginavamo un produttore pop, ha fatto TheGiornalisti… In realtà è una persona “che ne sa”, ci ha spiegato che noi abbiamo la nostra cifra stilistica, siamo questa cosa qua, facciamola suonare bene”.
“Per noi già cimentarci con altre persone, come in questo momento, è spaventoso… Però è stato bello scoprire che questa persona poteva davvero darti una visione differente della musica. Ci ha fatto ascoltare i Talk Talk, una band che noi non conoscevamo e che poi abbiamo approfondito, e come questa altre cento. E non ce l’aspettavamo”.
Il robot mortale del potere
Ma vogliamo chiedere a questi ragazzi (come abbiamo fatto peraltro anche con tre quarti del mondo indipendente che sta facendo “il passaggio”) com’è stato entrare nell’abbraccio di Warner? C’è chi passa alle major facendo finta di nulla, chi se ne vergogna e chi ne va fiero. Voi come siete messi in proposito?
“Siamo di quelli che se ne sbattono le balle. Siamo in major, Warner, e tra l’altro spaccano! La cosa più fica che abbiamo scoperto quest’anno è che le major non sono un robot mortale del potere…”
Però lo pensavate…
“Ma certo perché negli anni Novanta c’eravamo tutti! Io nella mia testa pensavo che la major fosse una cosa lontana… Invece non è vero, son persone che vivono di musica”.

“Io vado anche fiero – riprende Alessandro – di aver fatto un percorso che ci ha portato a una major. Mi vengono in mente per esempio i R.E.M., che sono stati un grande gruppo indipendente fino all’87, all’88, poi sono passati anche loro in Warner, però l’hanno fatto con una certa consapevolezza”.
“Noi abbiamo dato il disco in mano – continua Aimone – e il rapporto che abbiamo è un rapporto di discussione, noi bene o male andremmo avanti da soli uguale. Diciamo che la musica ha una funzione troppo importante nella nostra vita per poterla sacrificare. Preferiamo fare un altro lavoro, in caso. Perché è un lavoro, tra parentesi. Altra grande conquista di questa band dopo anni e anni e anni di sbattimenti…”
“Abbiamo capito che cosa vuol dire mettere su una struttura che parla di musica e che fa della musica il core business. Che è incredibile, nel senso che per noi la musica è sempre arrivata al massimo a noi che ci stampiamo il nostro demo, lo pieghiamo e lo timbriamo”.
“Invece questa è una vera struttura che ti aiuta, che ti toglie delle ansie, che ti indirizza su dove stamparlo, come fare, cosa fare, l’artwork, organizzare questa cosa qua, la presentazione. D’altra parte abbiamo trovato persone interessanti con cui si parla. E questo è il centro di tutto. Il punto sono le persone. Se in una major c’è gente di merda, magari quella major è una merda… Però nel nostro caso non è così”.
“Poi magari diventano dei diavoli mai visti e combatteremo. Ma per adesso è un’esperienza più che proficua, interessante e ci fa sentire anche in crescita“.
Sii Bruce Springsteen!
Così si può passare a cose più tranquille, per esempio i dischi che hanno influenzato questo disco, oltre alla scoperta Talk Talk e al modello R.E.M.
“C’è molto Bruce Springsteen, molto “driving rock”, batteria dritta, rullante sul battere, e vai di autostrada americana… Per essere un po’ più attuali The War on Drugs, o un Kurt Vile, tutto molto esterofilo effettivamente”
“Ci sono anche molti ascolti inglesi – precisa Alessandro – tipo Smiths o Stone Roses. Ci sono proprio in Non potrei mai chitarra acustica e chitarra elettrica che fanno l’arpeggio insieme, e quello è un suono che io personalmente ho imparato ad amare nel primo disco degli Stone Roses”.

“Sempre su Non potrei mai c’è il glockenspiel – racconta Aimone – e quando lo facevo ascoltare ai miei amici mi chiedevano: “Cos’è questa bacchettina magica?” Per figurarsi anche gli ascolti e quanto differiscono le reference, io ci sento Bruce Springsteen, mentre qualcun altro ci sente i bambini che giocano a casa… Oppure, sempre su Non potrei mai, ci sono clap che nella nostra immaginazione sono una citazione dei Cure di Close to me. Come vedete le influenze sono tante e come vedete per niente pretenziose… Oh del resto, se devi scegliere, sii Bruce Springsteen o i R.E.M.! Se è vera la musica che suoni, allora provaci davvero”.
“C’è dentro anche un gruppo come i Clash che sono partiti come gruppo punk per eccellenza, ma poi hanno fatto un disco come London Calling con cui hanno fatto veramente quello che gli pareva e c’era dietro questo nostro disco la stessa necessità espressiva, libertà di non rimanere per forza ancorati all’idea che la gente ha di te e di quello che dovresti suonare”.
Provinciali con orgoglio
Questa è un’intervista in due puntate: la prima è quella condivisa con i colleghi di altre testate, la seconda, con il solo Aimone, fatta al telefono, per precisare qualche altro concetto. Cominciamo con l’approfondire l’esperienza del Concertone del Primo Maggio, con apposita sottolineatura della provenienza perugina…
“La sottolineatura ha due significati: uno è storico. Avendo noi scelto il nome della band a caso, un nome strano, lungo e sbagliato dal punto di vista comunicativo, però ai tempi non ce ne fregava una mazza, eravamo alle superiori e volevamo soltanto suonare insieme e ridere e non avevamo assolutamente pensato al marketing.
“Noi ci siamo resi conto durante i primi concerti, di spalla o nei piccoli locali (i primi anni sono stati veramente vandalici), nessuno capiva come cazzo ci chiamavamo. Fast Animals and Slow Kids: ma chi se lo ricorda mai. La fortuna nostra è che FASK è un acronimo facile, perché il nome non se lo ricorda nessuno per forza”.

“Io mi trovavo in difficoltà a spiegare come ci chiamavamo, e quindi mi sono inventato questa roba qua di connettere la nostra musica alla nostra città. Anche perché noi siamo sempre stati legati alla vita di provincia, la vita di Perugia ci ha cambiato. Siamo provinciali con orgoglio. Stiamo molto bene dove siamo, ci piace stare tranquilli in mezzo alla natura, ma è anche una città piena di stimoli”.
“Ci ha proprio coccolato, conosciamo tutti, ci siamo sempre dati una mano. Nei primi dischi li abbiamo fatti in zona, con tutti i nostri amici musicisti che ci prestavano chitarre e amplificatori. Quindi è sempre stato per noi un punto di riferimento importante. Ancora oggi i concerti a Perugia sono forse i concerti più belli, perché ci sono tutti i nostri amici da sempre”.
“Perciò che veniamo da Perugia è diventato un mantra, lo diciamo sempre all’inizio di ogni concerto e la gente ormai lo ripete con noi. E in più all’inizio ci ha aiutato a far ricordare il nome della band. O almeno se non ti ricordavi il nome, che era una band di Perugia te lo ricordavi”.
“Da lì del resto non ci sono mai state tante band che sono riuscite ad avere un pubblico come fortunatamente è accaduto a noi. Questa cosa ci ha anche aiutato a distinguerci. Quindi lo abbiamo detto anche al Primo Maggio perché non esiste concerto in cui non lo diciamo. Ai tempi lo ripetevamo più volte durante il concerto e ogni volta partiva l’applauso, quindi è una cosa che ci ha aiutato e la gente lo sa”.
“Per quanto riguarda il Concertone, è stata una bella sfacchinata nonostante suoniamo da così tanto tempo. Quando uno suona da tanto e ha calcato tanti palchi, da giganti a piccolissimi, ti aspetti che l’organizzazione di un concerto non ti possa stupire. E invece sì: siamo ottantasette band con sette minuti di soundcheck, due minuti di montaggio, ogni secondo conta”.
Non hai il tuo spazio, non hai la tua crew, è tutto superorganizzato da un gruppo di gente che lavora lì. Siamo arrivati che non era neanche organizzata la cosa, non eravamo pronti. E’ stato un bello shock, però interessante, ci ha dato una nuova sfida musicale, che è sempre una bella figata. Ci siamo trovati un po’ ansiosi un po’ estatici sul palco, ci sentivamo così così, ma ci ha fatto capire che c’è un altro step da fare, e questo è bello. Quindi se l’anno prossimo ci richiamano arriveremo pronti e agguerriti”.
Non vogliamo avere più maschere
“Sai per tanti pensavo fosse alternativo fare il punk/ma oggi
ho trent’anni/vorrei soltanto dire quello che mi va” canti in Canzoni tristi. Un’ammissione, una dichiarazione, un’espressione di libertà?
“Più una dichiarazione di libertà, ma questo non vuol dire che non ascoltiamo più il punk. Mi piace da morire e lo ascolterò per sempre. E’ il genere che mi ha formato. E’ veramente una cosa che ho dentro. Il punto è però quando tutto questo diventa una piccola maschera al di fuori della quale non puoi uscire”.

“Anche inconsciamente ricalchi un personaggio. E secondo noi, musicalmente parlando, questo è un errore gigante. “Questo suono è un po’ troppo poco incazzato”: quelle robe là, che succedono sempre in sala prove. Anche se quell’altro suono è quello che ti piace. Quando succede questo vuol dire che tu ti stai limitando artisticamente”.
“Non vogliamo avere più maschere. Vogliamo fare quello che ci piace e vogliamo che ci sia quel brivido da sala prove, che auguro davvero a tutti i musicisti di provare. Vogliamo soltanto vivere quello. L’importante è ottenerlo, non il modo, come, perché… Non bisogna domandarsi un cazzo rispetto alla musica se non “Mi piace o non mi piace?”
Tutto questo è molto punk!
“Esatto! Egocentrico e punk“
Un discorso cervellotico
Nei testi del disco ogni tanto si legge qualche timore che costella le canzoni: “Una canzone senza coraggio” dice la title track Animali notturni… e la stessa Radio Radio con la sua richiesta di attenzione. Sembra che nella costruzione dei testi più volte ci siano stati dei dubbi che hai tenuto a esternare e a condividere.
“Questo è un discorso cervellotico, sotto ogni punto di vista: certe volte lottavamo perché la costruzione della canzone era troppo strofa-ritornello-strofa-ritornello-cambio-fine. Questo andava dal delay della chitarra, alla struttura della canzone, alle parole”.
“Abbisamo veramente ragionato tanto su questo disco e quindi sono venute fuori tante insicurezze che secondo me sono anche normali nella musica. Per chi fa una musica come la nostra che parla di te stesso, secondo me è normale che vengano fuori delle incertezze. Quello che sto dicendo adesso è giusto? Ha senso? E’ quello che penso davvero? Chi sono? Cosa sto dicendo? Quello che suono mi piace?”
“Questa è la domanda di base. Mi piace quello che sto suonando? Non è sempre facile dire di sì o di no. Certe volte devi ascoltare ventotto volte le canzoni, magari nel mentre tu ragioni. E dici: forse questa canzone non mi piace e in un’altra canzone lo esprimi. E’ tutto connesso. E fa parte di essere istintivi e puri nei confronti delle proprie canzoni”.
“Credo che ci sia un’incertezza ma anche irrisolvibile. Se uno non si domanda se questa musica lo muove o non lo muove non sta facendo musica. Per lo meno nel modo in cui noi la interpretiamo, una modalità terapeutica, istintiva, di libertà e di sfogo. Una canzone salvifica“.
“Può piacerti o non piacerti una canzone dei Fast Animals ma non puoi dire “Non è sentita”. E quantomeno te lo dimostreremo dal vivo. Perché parliamo di noi, e questa è un po’ la cosa che cerchiamo di dimostrare a tutti i costi, anche andando a scavare un po’ troppo certe volte”.
Ieri hai detto che quando chiudete un disco attaccate subito a lavorare a quello successivo “se no la band è morta”. Quindi come sarà il prossimo disco dei FASK dopo Animali notturni?
“Ancora non abbiamo iniziato perché iniziamo un mese dopo l’uscita del disco. E’ più malata di quanto credi! E’ ancora più folle di quello che hai visto…”
In effetti faccio sto mestiere da un po’ di anni ma siete i primi che dicono una roba del genere…
“Non so perché, ma ormai lo facciamo dal secondo disco. Secondo noi è vero che c’è istintività in arte. Ma se tu non ti applichi, come in tutte le cose, non ottieni un cazzo. Siamo veramente una band che straprova, strasuona, facciamo ventimila provini, se qualcuno aprisse uno dei nostri cellulari si troverebbe dentro canzoni da qui al futuro”
“Perché è così. Uno se le deve sentire, le deve immagazzinare, le deve far sue. Se tu dopo quattro giorni o cinque giorni ti canti il riffettino a quel punto ce l’hai, perché ce l’hai dentro. Se te la dimentichi era semplicemente un “fazzoletto”: ti ci stavi soffiando il naso”.