E’ in arrivo Hotel Esistenza, il nuovo album firmato dai Fast Animals and Slow Kids, in uscita venerdì 25 ottobre. Tre anni dopo E’ già domani, i FASK cambiano produttore, passando da Matteo Cantaluppi che li aveva affiancati negli ultimi due episodi, a Giovanni Pallotti, già al lavoro con Marco Mengoni, Francesca Michielin, Giovanni Truppi, Maneskin, Margherita Vicario. Il risultato è un disco di atmosfere variabili e non sempre prevedibili, composto da undici tracce. Abbiamo rivolto questa intervista alla band.
Parto con una cosa assolutamente ovvia: che cosa è successo in questi tre anni? Che cosa è cambiato per voi, per la band, nel tempo che vi separa dall’ultimo disco?
Aimone: Ma in realtà è una domanda da un milione di dollari perché sembra piccola ma è gigante, cioè: cosa è successo negli ultimi tre anni? Tante cose, tante cose sono successe, da un punto di vista musicale che è un po’ quello che dà il via alla nostra chiacchiera.
Innanzitutto sono successe 42 canzoni, abbiamo scritto 42 pezzi in questi anni, forse pezzi chiusi, più altre tante idee e di tutti questi pezzi a un certo punto ci siamo ritrovati a fare una grande cernita e a dover capire qual era il percorso, addirittura, perché se c’è stata una cosa difficile per scrivere Hotel Esistenza è andare a prendere le parti che lo caratterizzavano, perché tutte per noi erano importanti e spesso poi in una fase molto prolifica, quando scrivi molto, arriva un momento in cui pensi che le ultime cose che hai scritto sono le migliori e ti dimentichi di quelle precedenti.
Poi devi tornare indietro, devi riaccettarle, devi rientrarci dentro. Questo lavoro l’abbiamo fatto in questi anni, soprattutto nell’ultimo periodo con Pallotti alla produzione, e siamo riusciti a tirare fuori questo disco di undici pezzi. Secondo noi è molto eterogeneo, perché appunto racconta tre anni di vita.
In tre anni di vita tu vivi molte emozioni, alcune se vogliamo quasi in antitesi l’una con l’altra, ma c’è un principio di fondo che è la tua voglia di comunicare, la voglia di dire determinate cose unendo delle parole a una musica che ti rappresenta. E quindi siamo alla fine di questo percorso molto molto soddisfatti, contenti, soprattutto da un punto di vista appunto dei pezzi e della composizione della scaletta e dell’album.
Vorrei capire qualcosa di più del titolo e anche di questa copertina “incravattata”.
Aimone: La copertina incravattata: partiamo da questa che è più facile come risposta. Noi non abbiamo mai fatto un disco dove ci siamo noi di faccia, anche su E’ già domani, il disco precedente, c’eravamo noi ma eravamo dipinti, è un dipinto di un metro e mezzo per un metro e mezzo, perché comunque ci viene sempre molto difficile esprimerci, farci vedere dopo che di fatto ci siamo fatti vedere così tanto con le canzoni.
A noi sembra di essere trasparenti, di essere forse vissuti a raggi X dalle persone se vogliamo perché è il nostro modo di comunicare della roba che magari non sappiamo neanche dire a voce ma che con le note assume più forza. Quindi era uno scoglio e abbiamo detto “no rega, ce la dobbiamo fare perché dobbiamo accettare anche questa parte di noi stessi che fa parte del gioco, del gioco della musica, quello di esserci, di mostrare almeno un lato di noi”.
Quindi lo volevamo fare per bene, tutti messi a lucido e quindi questa a parte gli scherzi insomma è stato proprio un passaggio, forse se vogliamo più psicologico per noi stessi quanto che per l’immagine in sé; anche se siamo molto soddisfatti, devo dire, ci piace molto perché raccoglie e rimanda a quello che appunto è il titolo, Hotel esistenza, perché l’abbiamo scattata dentro un hotel durante uno shooting molto lungo, quello era l’ascensore dell’hotel per la precisione, quindi immaginare noi in questo grande hotel milanese che giriamo in quel modo in giro per tutte le stanze è stato molto molto bello.
Quello scatto è venuto fuori al volo mentre eravamo lì e catturava un po’ questa essenza, questa istintività e al tempo stesso anche comunque una ricerca di struttura che secondo me è anche un po’ propria della band, siamo entrambe le cose, siamo un po’ distratti al tempo stesso però anche belli formali quando si tratta di scrivere e di comporre la musica che per noi tuttora adesso è importante e seria.
Hotel esistenza prende spunto in realtà da uno stimolo che ci è arrivato leggendo Paul Auster, Follie di Brooklyn, che ci è piaciuto moltissimo, in realtà lì si parlava di tutt’altro, ma le due parole ci tornavano perché per noi l’hotel è uno dei topoi della narrativa del rock and roll, quindi noi ce l’abbiamo sempre, ce l’abbiamo sempre avuto dietro e in più per noi che facciamo questo di mestiere l’hotel è anche un po’ la casa.
Noi impropriamente ogni tanto ci ritroviamo magari alla fine di una lunga serata dopo che siamo in giro da settimane che diciamo “Vabbè ragazzi, torniamo a casa”. E non è casa, è un hotel e la parola hotel in più ha anche questa sfaccettatura per cui l’hotel di per sé può essere bellissimo, altissimo, bassissimo, nostalgico, ha mille stanze dentro con mille pubblicate e mille persone che lo popolano, quindi l’hotel è veramente un contenitore, se vogliamo, è una casa che sentiamo nostra ma che può essere riempita di tutto, che non ha soltanto un anima, ne ha centomila.
L’esistenza è il modo con cui noi rappresentiamo le nostre canzoni, se c’è una cosa che è tipica proprio della musica è che il musicista ogni tanto esiste, nel senso che spesso puntiamo più all’essere, all’esserci che all’esistere, perché ci sono dei contesti magari nei quali tu sei concentrato su te stesso, vivi dei contesti dove forse se vogliamo anche un ambito d’apparenza è quello che va avanti e l’unica cosa che ci salva alla fine da tutto questo contesto, questo intorno, questi lustrini che viviamo, sono le canzoni che sono l’esistenza, sono una cosa immutabile, stanno lì, l’esistenza c’è, è l’esistenza e quindi unire queste due cose era come riempire ogni singola stanza con le nostre esistenze, con le nostre canzoni e ci dava un immaginario quindi che ricollegava tutto, collegava un posto fisico e un’idea.
Ti puoi rapportare con te stesso
Parlando a livello di suoni, di ispirazioni, mi sembra che questa volta ci sia forse un po’ più di equilibrio fra, permettetemi la banalizzazione naturalmente, origini un po’ più ruvidine e crescita magari un po’ più pop, un po’ più morbida, mi sembra che questa volta rispetto all’ultimo in particolare ci sia un pochino più di ricerca di equilibrio. Volevo sapere, insomma, anche nel processo della selezione di queste 42 canzoni di cui parlavi prima, com’è andata un po’ la faccenda e che tipo di intento alle spalle c’era a livello proprio di suono sostanzialmente, di produzione, di arrangiamento e tutto quanto.
Aimone: Allora, anche questa è un domandone perché devi ripensare a cosa è accaduto e ne sono successi tanti.
Alessandro: In quei 42 pezzi c’erano pezzi che spiazzavano tantissimo, passavano da un pezzo che non è finito nel disco e suonava un po’ tipo i Clash, a un pezzo invece come appunto Dimmi solo se, che invece è una ballata, “Dimmi solo se verrai all’inferno con me“, che è una ballata, che ha una forte voce e quindi è stato secondo me…
Aimone: Un pezzo shoegaze, cioè santuario che senti i Ride di sottofondo, se vogliamo…
Li vogliamo sentire tutti, naturalmente, questi altri pezzi
Alessandro: Prima o poi… Quindi è stato un processo proprio di scelta anche, di quali erano i pezzi che più rappresentavano noi come band, noi come musicisti fondamentalmente. È stato anche questo un lavoro molto importante che ha svolto molto bene anche Giovanni Pallotti, il nostro produttore.
Aimone: Ci ha aiutato a fare ordine.
Alessandro: Per esempio, c’era un pezzo del disco che si chiama Brucia. Non volevo metterlo nel disco perché mi sembrava un po’ troppo “fuori”, ma lui ha parecchio insistito e adesso per esempio è uno dei pezzi che preferisco del disco perché proprio secondo me, come detto da lui inizialmente, ha un suo posto in questa cosa di canzoni.
Aimone: Sì, be’, la cosa positiva nel processo logorante del dover togliere una cosa positiva dell’avere tanto materiale è anche quello che ti puoi rapportare adesso, cercando di astrarti un attimo da quello che hai appena scritto, sentendo e basta. E quindi dici: questo mi rappresenta molto. Faccio un esempio: E’ solo colpa tua, un pezzo che parla del senso di colpa nei confronti di quelli che erano i nostri sogni da ragazzini, no? E il fatto che questo pezzo qua suoni o perlomeno rimandi un po’ a questo emo punk che ascoltavamo quando avevamo 14 anni, ci gasa. Abbiamo detto: cavolo no, questa è proprio una parte fondante di noi.
Abbiamo avuto il tempo, in tre anni, e se vogliamo anche un po’ la forza e l’intelligenza di dire: “no questa è una parte propria nostra”, così come è propria nostra un pezzo come Torna, che è una ballad d’amore dove il concetto dell’amore è assolutamente chiaro e l’orgoglio è proprio assolutamente chiaro e palese negli occhi di tutti, nelle orecchie di tutti.
Alessandro: Poi un discorso a parte meritano anche le ballad del disco, perché tra quei 42 pezzi c’erano veramente tante ballad, pezzi lenti, e quindi lì è stato, secondo me, parecchio doloroso scegliere quali mettere, quali no, perché fare un disco di solo le ballad non era rappresentativo.
Anche quelle le recupererete poi col tempo. Dopo domande difficili ve ne faccio una facile, penso. Qual è la canzone preferita di ognuno dei quattro di questo disco? E perché, se possibile.
Jacopo: La mia è Santuario.
Aimone: Sì, che è la stessa mia. Noi ne abbiamo già parlato, perché questa roba non ci piace, che ci piace la stessa canzone. Ci fa un po’ incazzare. A me piace più che a lui, secondo me.
Quindi vince Aimone.
Aimone: No, c’è questa gara scema. No, nel senso che anche per me quello è un pezzo molto, molto bello, tanto che ne abbiamo discusso parecchio in una fase di creazione di scaletta, perché per me doveva andare prima, perché secondo me “rappresenta di più”, ma sono nostre paranoie interne. La creazione della scaletta è un altro momento di grande dramma e di pseudo-scioglimento della band, devo dire, ogni volta (ridono). Quello è un pezzo che mi piace molto, perché secondo me fa trasparire molto, molto bene un senso di voglia di cambiamento e di dolore. Quindi questo grande pendolo tra il dover cambiare e in realtà non voler cambiare mai, perché quello che hai di fatto ti coccola, no? A me mi piace molto e mi slancia. Voi?
Alessandro: Il mio , devo dire, forse è Una vita normale.
Jacopo: Eccolo. Io ci sono arrivato da poco, perché hanno cominciato a farci questa domanda. All’inizio ero più su Festa, però in realtà una vita normale mi sembra un po’… musicalmente il concetto di Festa è espanso ancora di più. Ci sono dentro un sacco di influenze, power pop, di cose che io ascolto, che mi piacciono tantissimo, anche cose corali, quindi forse è Una vita normale.
Alessandro: Il mio forse è un motivo un po’ più terra terra, per cui è il mio preferito: è l’ultimo pezzo che abbiamo scritto per il disco e proprio mi ricordo che avevamo i giorni in studio già contati. Quindi mi ricordo un po’ questa corsa contro il tempo per finire quel pezzo, però finirlo appunto con tutti, insomma, metterlo proprio… in piedi, no?
Ed è anche proprio quel momento in cui abbiamo scritto, anche l’aver capito che era il pezzo giusto per iniziare il disco, anche quello è un bel ricordo che ho legato a quel pezzo lì, quindi insomma forse anche magari motivi più sentimentali…
Aimone: A me è una cosa che mi gasa di quella roba lì da dire, che vabbè, è un aneddoto scemo se vogliamo. Però a noi piace molto l’idea dell’album, proprio come concetto. Che è anche un po’ desueto, se vogliamo, però a noi piace perché è la nostra forma con cui noi in tot di canzoni possiamo raccontare chi siamo. E ci sembra più quindi un racconto, ci serve più un libro, se vogliamo. Mentre magari il singolo ci sembrano due o tre pagine che non riusciamo mai a capire bene, non funziona mai bene.
E quindi in quest’ottica di insieme a me piace pensare a Una vita normale perché dice “Dentro di me c’ho l’inferno” e sul “dimmi solo se verrai all’inferno con me”, la richiesta che fai è, ok: io dentro di me c’ho l’inferno, tu ci vieni con me? Quindi c’è una sorta di ciclo che quindi ti porta a reiniziare il disco e noi questo lo facciamo in realtà da tanti anni che pensiamo a queste menate che poi probabilmente non servono a nessuno, a noi stessi, a gasarci, però lo facciamo. C’è sempre questa idea di circolarità nei nostri dischi.
Ci vuole qualcuno che difenda ancora il disco. Io sono anziano per cui ovviamente lo devo difendere per il mio status e per la mia personale sopravvivenza. Però, insomma, se no si viaggia solo a singoli, è un po’ una banalizzazione della musica, secondo me. Comunque, a parte queste polemiche assolutamente inutili e sterili che si portano avanti così a caso, a proposito di dischi vorrei sapere intanto che cosa significa per voi il decimo anniversario di Alaska, per esempio, perché quest’anno l’avete festeggiato, avete già fatto anche il vinile, eccetera, eccetera. Però visto che è stato, a mio personale parere, forse il più significativo dei primi vostri dischi, vorrei due parole su questa cosa qui.
Aimone: Alaska, l’abbiamo celebrato alla grande perché abbiamo fatto anche questo tour europeo pazzesco, 15 date in 30 giorni, 17 mila chilometri, con lo stesso furgone, noi che guidavamo di notte, a bere gli energy drink per rimanere svegli, cioè una roba incredibile.
Lui (Jacopo, ndr) si è fatto da solo 12mila chilometri di 17mila, veramente un folle totale, follia colossale, abbiamo passato la Germania cinque volte, quindi insomma, come dire, concerti sudatissimi, gente che lanciava i reggiseni, un casino, un disastro. Noi montavamo, smontavamo la gente, ci dava una mano perché eravamo così stanchi che ci aiutavano a smontare. Vabbè, veramente un ritorno, se vogliamo, a quelle 105 date che facemmo nel 2014 per il tour d’Alaska, ed è un disco in cui siamo legatissimi, sotto vari punti di vista, perché è stato un disco emotivamente molto forte, anche per noi, in una fase particolarmente buia, forse, della nostra vita personale, e quindi è un disco che ci ha lasciato molto, a cui siamo tanto legati, e che penso, come dici te, è stato un punto di svolta anche perché ci siamo proprio resi conto, con quel disco là, che stavamo scrivendo una parte della nostra giovinezza.
E adesso, che lo riguardiamo dopo un po’ di anni e ci rendiamo conto che quella parte c’è ancora, ma è una piccola parte di quello che poi siamo diventati come persone, perché per fortuna non rimaniamo giovani per sempre, e quindi questo lo dico con orgoglio, nel senso, non è che necessariamente andare avanti con l’età significa per forza ricordare i good old times: col cazzo, anzi, a noi piace, alla nostra età piace vivere questo momento, ci piace crescere e scoprire sempre di più, però quella roba lì, vedendola adesso, dieci anni dopo, ci rendiamo conto che stavamo scrivendo la nostra giovinezza, stavamo dicendo: “Questi siamo noi adesso”, e lo siamo in parte ancora, ma sicuramente quando mettiamo quel disco ci teletrasportiamo.
Abbiamo una forza in più delle altre persone, abbiamo qualcosa in più che è la vera fortuna del musicista, noi non dobbiamo andare su Instagram a scrollare le foto di quando avevamo dieci anni di meno: noi mettiamo un disco e siamo esattamente lì, in quell’istante, lì dentro. E’ molto significativo.
Alessandro: No, io ci volevo soltanto aggiungere che per me questo decimo anniversario è stato anche un po’ un modo di fare pace con quel disco lì, perché io personalmente ho un po’ sempre un rapporto complicato con me stesso del passato, penso sempre in termini, com’erano i tempi, cosa facevo, mi preferivo prima o mi preferisco adesso, invece suonare queste canzoni dopo dieci anni in giro per l’Europa, mi ha rimesso un po’ in pace con quello che ho fatto, con quello che è stato quel disco lì per noi e per tante altre persone.
Esperienze sconvolgenti e nuovi inizi
Be’, anche questa rilettura che pacifica col passato non è niente male, insomma, è una bella opportunità che avete come musicisti, posto che tra l’altro anche come ascoltatori in realtà uno mette sul disco e tendenzialmente dice, ah, caspita, adesso mi ricordo che eccetera eccetera, quindi credo che sia un buon rapporto anche tra musicisti e ascoltatori a qualunque livello, certo. E sempre a proposito di tour e di passato vorrei due parole sull’esperienza che avete fatto con l’orchestra l’anno scorso.
Aimone: Quella roba lì è stata veramente sconvolgente, a parte che adesso ci rendiamo conto a distanza di un po’ di tempo che anche in virtù del fatto che stiamo già in sala prova ovviamente chiusi a provare nuovi pezzi per il nuovo tour eccetera eccetera, ci rendiamo conto che quell’esperienza lì ci ha dato una roba nuova e un modo anche di concepire il concerto in maniera differente, se vogliamo anche un pochino più connessa anche alla scenografia, al contorno.
Comunque hai fatto un tour in teatro, c’era un’orchestra con te, il teatro ti dà delle vibes differenti, delle vibrazioni differenti rispetto a quello che magari può essere un concerto, come possiamo sintetizzare il tutto perché noi siamo quello e vogliamo esserlo. E quindi al di là di quella che poi è appunto un’esperienza, una crescita proprio musicale, artistica, io penso proprio che sia stata un’esperienza formativa in termini tecnici, cioè lavorare con un’orchestra significa per noi che siamo una band che funziona, che ormai ci diciamo una roba e tutti abbiamo già capito, cioè suoniamo così tanto insieme che io dico c’è bisogno di dire che cos’era, perché sanno magari loro cosa pensavo, io so quello che pensa Alessio o Jacopo.
Quindi trasformare questa roba qua, che è sempre stata così, questa stanza, in qualcosa di così espanso e così enorme è come re-iniziare a parlare, devi re-iniziare a parlare, guardate che il mio intento rispetto a questa parte dell’arrangiamento era di dare questa sensazione, quindi tu come sempre quando dici le cose le inizi a pensare più forti, perché le stai palesando, perché stai dicendo a qualcuno, è come scrivere le cose, quando ti scrivi un appunto ti rimane più in testa, io perlomeno quando studiavo io scrivevo tutto, ero uno di quelli che si scriveva le robe, e tuttora adesso lo faccio per ricordarmele, e quindi questo è quello che mi porto dietro.
Quello che mi porta dietro è questa sensazione di dire: “Oh cazzo adesso io come parlo con le altre persone della cosa che faccio da più tempo in assoluto”. E poi trovi la quadra, e trovare la quadra è un momento di epifania totale, perché poi è la quadra con 30 musicisti che suonano il pezzo che tu hai scritto qui dentro, quindi è una roba pazzesca, è un’esplosione enorme, però ditele voi anche ragazzi, perché io ti tendo a parlare…
Non si nota però, Aimone non ti preoccupare, non si nota.
Alessandro: Ecco, ecco, sempre magari riconnettendosi al discorso che facevamo prima sul passato, è stato bello anche vedere come i nostri pezzi potessero comunque convivere, no? Pezzi di epoche diverse della nostra vita, appunto pezzi di Alaska magari incazzatissimi, convivere con pezzi di E’ già domani, che sono pezzi più morbidi: vederli sullo stesso livello è stato anche per noi una roba molto potente.
Aimone: Lo dicevamo con Carmelo Patti, il direttore dell’orchestra, che collabora con noi da tanto tempo, dicevamo proprio il fatto che anche nelle canzoni che “si schermavano”, vedi Alaska, no? Alaska è un disco che si scherma con gli amplificatori, con il distorto, e di fronte a un distorto, a quell’energia, spesso e volentieri anche un pezzo che non ha una forma canzone può difendersi, perché fai passare l’irruenza in primo piano.
La cosa che abbiamo scoperto è che in realtà noi, questa idea della costruzione del pezzo con una forma se vogliamo anche più pop, anche più melodica, ce l’abbiamo sempre avuta, perché poi davanti a un’orchestra togli tutta una serie di orpelli e di distorsioni e scopri che dietro a quella canzone lì c’era già quel tuo pensiero, quella tua voglia di comunicazione anche orizzontale, ma la esprimevi con una chiave diversa. E questa è una bella presa di coscienza, perché magari appunto ti rendi conto che ci sono anche delle cose che sono un po’ se vogliamo innate, magari qualcosa che tu hai assorbito precedentemente ascoltando alcuni artisti che ti piacevano molto e ce l’hai dentro anche se tu pensi che non ci sia.
Allora, ultima domanda perché mi sa che abbiamo finito il tempo. Sempre parlando di tour però, del prossimo, questo è concentrato sui grossi club, però mi colpisce come né nel tour né nell’instore ci sia Perugia.
Aimone: Ecco, questa è una domanda a cui io non risponderò (ride)… In realtà ci stiamo pensando, ci stiamo lavorando. Questo voglio dire, noi ci stiamo lavorando perché ci sarà sempre. A parte che c’è anche nelle altre date Perugia. Ah è vero, in instore facciamo questa roba qua, a Perugia è uscita una storia oggi.
Ah ok, me la sono persa, scusate.
Aimone: No no, è uscita due ore fa. Perché a Perugia abbiamo detto questo: Perugia è casa nostra. Sono i nostri amici, è proprio una condizione, la viviamo tutta la vita. Quindi noi a Perugia facciamo le robe matterelle, quindi il senso è al posto di fare l’in-store in Feltrinelli oppure da qualche parte che ti metti lì e ti mette a firmare le copie eccetera eccetera o una chiacchiera, noi qui facciamo un bordello.
Quindi andiamo alla Darsena, questo locale storico che avanti dagli anni ’80 con questo nostro amico che lo gestisce da una vita matto totale e chiamiamo Appino che viene a mettere i dischi, gli Elephant Brain vengono a fare un po’ di cover e quindi diventa un casino. E facciamo un casino una notte al volo per poche persone. E questo è il nostro modo di festeggiare perché quando torniamo a casa vogliamo stare bene. Non che non stiamo bene da altre parti ma comunque a casa.
Pagina Instagram Fast Animals and Slow Kids