Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su TRAKS il 18 maggio 2021.
Non ho mai visto Battiato dal vivo. Del resto non ho mai visto neanche De Andrè, Dalla, Battisti. Ho visto una volta De Gregori e ha litigato con gli spettatori. In compenso Battiato di persona l’ho visto una volta, in un’affollata conferenza stampa milanese (quando non si facevano su Zoom, che tempi). Era il 1996 ed era la presentazione de L’imboscata. Placido e sorridente quasi tutto il tempo, tranne che in una piccola sezione: quando dovette spiegare a un (mio) collega che gli chiedeva come mai avesse fatto un disco così “breve” (neanche 40 minuti, per l’epoca e per un cantautore quasi una scelta punk; oggi ovviamente fanno tutti così e ci sembra giustissimo) che a lui, della lunghezza dei brani e dei dischi, non gliene fregava niente.
Battiato se n’è fregato di tantissime cose durante la vita e durante una carriera musicale incredibile e paragonabile a quella di nessuno. Perché nessuno come lui è riuscito a far suonare insieme e in modo armonico la cultura e il pop. Lasciando che a tratti prevalesse l’una e a tratti l’altro, ma sempre senza vergognarsi di cantare Cuccuruccuccù Paloma e poi le meccaniche dell’universo, la poesia sufi, i campi del Tennessee e tutte quelle visioni quasi mistiche, ma anche quelle bizzarrie storiche e antropologiche che si divertiva a inserire nei suoi testi.
Basta dare un’occhiata ora ai social, in quella sorta di doveroso funerale laico che si sta celebrando in queste ore, da parte di chi amava la sua musica o anche ne ha semplicemente sentito parlare e si sente in dovere di postare il video de La Cura: c’è una tale alternanza di registri, una palette che va dagli esordi con dischi progressive incomprensibili ai più ma geniali, a brani decisamente più pop ma mai convenzionali. Nemmeno De André, che era De André, si era spinto così in là nel mescolare alto e basso. Anzi se vogliamo l’opera di Battiato e quella dell’artista genovese sono complementari: più vicino alla strada, pur con l’occhio colto del poeta Fabrizio, più interessato agli studi, religiosi, filosofici, filologici, ma senza perdere il senso della realtà, lo sguardo sul popolo in festa Franco.
Che tra l’altro si chiamava Francesco e anzi aveva scelto il nome di battesimo come nome d’arte, ma dovette cambiare nome per colpa di un altro personaggio di un certo rilievo nella storia della musica italiana: quando Giorgio Gaber lo invitò nella trasmissione Diamoci del tu condotta da Caterina Caselli, era già previsto come ospite un altro esordiente, Francesco Guccini. Troppi Francesco, e Battiato diventò Franco. E anche sua madre, che fino a lì lo chiamava Francesco, iniziò a chiamarlo Franco.
Tre dischi, tre ricordi
Senza voler fare la classifica dei dischi importanti (ma per favore ascoltiamolo tutto: ne vale la pena), sono tre i dischi che si stagliano nella mia memoria anche al di là della loro validità artistica effettiva. Diciamo i tre che mi muovono il maggior numero di emozioni in questo momento. Il primo è il già citato L’imboscata, che insieme a L’ombrello e la macchina da cucire di due anni prima segnò il ritorno al pop dopo anni di esperimenti, tra cui opere liriche come Gilgamesh. Certo è un pop alla Battiato, con i testi di Sgalambro, che però riescono a convincere anche le classifiche, soprattutto grazie a Strani giorni, singolo elettrico e ben oliato. Del resto come fai a non convincere le classifiche quando canti “L’uomo neozoico dell’era quaternaria”? Che poi, non sembra, ma siamo noi, qui e ora.
E in quel disco c’è La Cura, 18 milioni e passa di ascolti su Spotify al momento, che non è male per una canzone del 1996, ma che sono presumibilmente destinati a duplicarsi a breve. Una delle più ricche, piene e intelligenti canzoni d’amore di sempre, ancorché dedicata alla madre, ma poi ognuno la dedica e l’ha dedicata a chi meglio crede, a dimostrazione ulteriore che l’amore e la poesia se ne fregano bellamente delle limitazioni. Già, come le canzoni di Battiato, in fondo.
Poi naturalmente c’è La voce del padrone, del 1981. Avevo otto anni e non capivo niente, ma proprio niente di quello che sentivo, ma il modo di cantare e le parole non usuali di sette perle come Summer on a Solitary Beach, Bandiera bianca, Gli Uccelli, Cuccuruccucù, Segnali di vita, Centro di gravità permanente, Sentimiento nuevo mi risuonarono in testa fin da subito e per molti anni a venire. Questo disco arrivava dopo due capolavori come L’era del cinghiale bianco (con quello strepitoso incipit di violini della title track: ma a chi mai viene in mente di fare pop così?) e Patriots, che conteneva, tra le altre, Up Patriots to Arms e Prospettiva Nevski.
Ma è qui che arriva l’incastro perfetto, la combinazione astrale che ti fa toccare il cielo con un dito. Il minatore bruno, Mister Tamburino, la leggerezza degli uccelli che seguono “le regole assegnate a questa parte di universo” eppure “cambiano le prospettive al mondo”, quel modo strano e raffinato di parlare di sesso in Sentimiento Nuevo, e poi la vecchia bretone, i capitani coraggiosi e i fiati di Centro di gravità.
E del resto chi cazzo li sopporta i cori russi, la musica finto rock eccetera?
A me piacevano i dischi e iniziavano a piacermi i libri, ne leggevo già qualcuno verso i dieci, undici anni. Anche libri strani, che i miei coetanei non prendevano in considerazione. Quando Battiato parlava dell’ “esoterismo di René Guenon“, sapevo a che cosa alludesse. E avvertire che un cantautore potesse mettere insieme le cose che leggevo con una musica che trovavo irresistibile senza essere mai tronfia o paludosa, mi fece sentire un po’ meno strano. O mi fece sentire che essere strano in fondo non era così male.
L’ultimo disco che scelgo per ricordare Franco Battiato è Fisiognomica, del 1988, che tra l’altro cementa e certifica la collaborazione di lungo corso con Juri Camisasca grazie a un pezzo memorabile come Nomadi. Un disco riflessivo, più intellettuale che popolare a dispetto della title track e soprattutto di E ti vengo a cercare, magnifica dichiarazione di dipendenza e di completamento nell’amore, dell’attrazione magnetica dovuta a “questo sentimento popolare” che “nasce da meccaniche divine”. Anche la versione dei CSI su Linea gotica, con la voce ronzante e quasi malata di Giovanni Lindo Ferretti ma con la pennellata finale del Maestro contribuisce al valore di una canzone mistica e romantica insieme.
Fisiognomica è un disco complesso, che parlava di divinità e spiritualità proprio quando io mi stavo accorgendo che ne potevo tranquillamente fare a meno. Testi in arabo e in siciliano, lingue che non padroneggio proprio abilmente, e che tuttavia imparai a memoria a furia di ascoltarli, naturalmente senza capire quasi niente di quello che cantavo. “Me’esmuha/ismi khalifa/adrussu allu ata”: neanche Google Translate avrebbe potuto aiutarmi, ma io cantavo lo stesso.
Quella cassettina dalla copertina giallina con una foto di Franco da ragazzino, la ascoltavo con mio padre e la cantavamo insieme. Ed era una delle pochissime cose su cui ci trovassimo d’accordo. Il sabato pomeriggio, per vincere la noia, oppure durante viaggi in macchina in cui le alternative erano il silenzio oppure litigi per motivi futili, cantavamo Fisiognomica e ci trovavamo d’accordo almeno su una cosa. Curioso come questo disco, che parla tantissimo di solitudine e delle difficoltà di adattarsi a essa, mi abbia fatto sentire molto meno solo, all’epoca.
Aggiungo un bonus: Battiato non Battiato, disco tributo uscito sempre nel ’96 a opera della Cyclope Records di Francesco Virlinzi, che coinvolse esponenti allora emergenti della scena catanese come Carmen Consoli (memorabile la sua versione quasi grunge de L’animale), Mario Venuti, Luca Madonia, insieme a molti dei gruppi di quella che allora era la scena indie: i già citati CSI, gli Yo Yo Mundi, La Crus, Bluvertigo, il Nada Trio.
A certificare l’influenza di Battiato su quei decenni e su quelli a venire, come i continui riferimenti che i dischi dei cantautori di oggi continuano a portare. Anche Colapesce e Dimartino a Sanremo con la cover di Povera Patria, che conteneva un frammento della voce del maestro catanese, non hanno fatto altro che allinearsi a una lunga fila di artisti che sono stati migliorati dalle sue canzoni. A partire da Alice, naturalmente, che con lui cantò mille volte e che vinse Sanremo con Per Elisa, cofirmata insieme a Battiato e Giusto Pio, e che poi accanto allo stesso Battiato cantò all’Ariston I treni di Tozeur.
Tutto qui, quello che avevo da dire in merito a un personaggio strano e inafferrabile, capace di parlare alla testa quanto al cuore. Ora vado a cercare quella cassettina gialla, credo sia tempo di riavvolgere il nastro.
“Credimi siamo niente/dei miseri ruscelli/senza fonte”
La scorsa volta mi stavo facendo il bagno, con tanto di bollicine e incensi, e mi torna in mente ” i treni di Toseur” metto la musica e non ha tempo questa musica, e non ha spazio, è una cosa universale, lui aveva uno spirito universale, e potrei sentirle mille volte le sue canzoni eppure non sono una fan, non sono una che si lega a certi cantanti, ma lui è speciale, dico è perchè è ancora vivo in questa musica.