Di Chiara Orsetti

Dire qualcosa sul Festival è sempre complesso. Tutti ne parlano, molti ne scrivono, pochi comprendono. E la difficoltà sta proprio qui: si prende troppo sul serio quello che andrebbe alleggerito, e troppo poco sul serio quello che andrebbe, invece, approfondito.

Lasceremo da parte pagelle, voti sui look o pettegolezzi, che hanno fatto tutti ma fondamentalmente non interessano a nessuno. Quello che Traks vuole raccontare è la musica, quello che chi scrive ama raccontare è quello che potrebbe sfuggire a un occhio, un orecchio o un cuore distratto.

La musica a Sanremo è protagonista, ma lo è anche e soprattutto al di fuori del Teatro Ariston, dove centinaia di artisti emergenti cercano di trovare il loro spazio nelle radio che hanno invaso i negozi delle vie del centro, armati di cd, strumenti, e bagagli emotivi. Si raccontano ai microfoni, fanno ascoltare le loro canzoni e parlano dei loro progetti futuri, guardando verso il teatro e sperando di poterne calcare il palco con la loro musica.

Eventi collaterali organizzati nelle location più disparate, dalle piazze addobbate come fosse Natale ai loft in centro, dove per qualche minuto l’attenzione è dedicata proprio a chi ha preso il microfono in mano in quel momento. Sguardi d’intesa, complicità, critica. Gli artisti sono libri in attesa di essere letti: c’è chi inizia a incuriosire dalla copertina e chi ha bisogno di arrivare ai primi capitoli per riuscire a spiegarsi.

E questo vale per tutti: big, nuove proposte, emergenti senza gara. L’errore più grande che si può commettere con la musica, e con chi la fa, è non provare a comprendere. Non provare a comprendere che cosa si nasconde dietro un gesto, una posizione sul palco, la scelta di un abito o una pettinatura. Non sempre si tratta di casualità, eccentricità o amore della tradizione: a volte c’è ragionamento, vissuto, emozione.

Parlo di Achille Lauro e delle sue scelte stilistiche, che lasciano l’amaro in bocca a chi riesce a vedere oltre l’apparenza. Sofferenza, desiderio di rivalsa e di dare un volto a chi gli ha reso difficile lo stare al mondo, perché alle spalle di un abito di scena o di una scelta di stare tre passi indietro rispetto ad Annalisa durante la serata duetti si nasconde un passato impossibile, che avrebbe demolito anche il più duro degli animi. La sofferenza che tenta di essere esorcizzata con la stravaganza dovrebbe meritare almeno il tentativo di comprensione.

Parlo di Tosca, elegante e perfetta nel testo e nella musica, che viene contrapposta all’anima del collega quando in realtà sono accomunati da un grande senso di amore per l’arte, universalmente intesa. Maestosa maestra di classe ed eleganza, interpretativa e stilistica, che sembra dominare dall’alto mentre il resto potrebbe sembrare solamente desiderio di far impennare lo share.

Si potrebbero citare altri casi limite in entrambe le direzioni, ma resta sempre e soltanto il gusto personale a far preferire un modo o l’altro di veicolare l’emozione. L’importante è che di emozione si tratti, non di semplice voglia di stare sul palco per ottenere visibilità.

Lo sguardo, la speranza e la bravura di Diodato hanno meritato la vittoria senza ombra di dubbio, fugando ogni possibile dissenso di chi non avrebbe compreso una scelta differente.

Forse sarebbe bene concentrarsi sulla capacità di emozionarsi ed emozionare, a cominciare da quella dei ragazzi con la chitarra sulle spalle che vanno a bussare alle vetrine del centro, che ti regalano sorrisi e cd e ti raccontano di quante volte hanno sentito bruciare il desiderio di farsi ascoltare, al punto di aspettare a proporsi per essere davvero pronti per lanciarsi in pasto al mondo. L’emozione non ha voce, diceva qualcuno. In alcuni casi non solo ha voce, ma anche occhi, mani e pensieri. E se non siamo in grado di comprenderli, non critichiamoli per forza. Che si tratti di Tosca, di Achille Lauro o di chi su quel palco forse non ci arriverà mai.

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