Circa un anno dopo l’ep Afterlight e oltre dieci anni dopo l’ultimo full length, il progetto Nanaki, cioè il side-act del chitarrista dei Postcode Mikie Daugherty, pubblica The Dying Light, tredici tracce di post rock non troppo estremista.
Apertamente ispirato dalla lettura della “Nausea” di Sartre e dal “Castello” di Kafka, il disco, benché spesso avvolto da uno spleen esistenziale, è meno malinconico di quello che queste righe potrebbero suggerire.
A meno che non si prende il pezzo d’apertura, I Have Outlived Myself, come esempio: perché qui lo spleen c’è ed è il bastione centrale attorno al quale è costruito il brano, che peraltro mostra anche facce differenti.
Sackcloth and Ashes si basa sulla ripetizione ossessiva (ma con variazioni) di un giro di chitarra, finché non interviene il cambiamento ad accelerare all’improvviso la vicenda, con contenuti di rock aspro e tirato.
La chitarra e gli effetti procedono su una melodia piuttosto quadrata all’interno di The Land Surveyor, un quattro quarti in cui la sezione ritmica regge il discorso con intensità.
La sei corde peraltro non molla di un centimetro, come si dimostra facilmente nel brano successivo, Unholier Than Thou, il cui incedere si fa maestoso, salvo lasciare spazio a una lunga coda finale piuttosto lirica con pianoforte.
Si torna a ritmi rock con Anonymous, brano in cui quasi si avverte la mancanza di una voce che completi il sound del brano, almeno fino alla parte più sperimentale del pezzo, in cui la chitarra quasi si spegne per lasciare spazio a dita che grattano sulle corde.
Yorda vede protagonista il pianoforte, in una progressione morbida e melodica. Uno dei cuori pulsanti del disco è la lunga suite Hiraeth, che utilizza anche suoni di archi, ad approfondire le sensazioni sinfoniche. Poi l’intervento della chitarra con intenti psichedelici, in un prolungato finale che deflagra in coda.
E dopo la lunga cavalcata ci si riposa un po’ con le atmosfere più ovattate di Perpetual Commotion, che lascia entrare anche qualche suono “alieno”, come il Fender Rhodes o la drum machine, senza però turbare più di tanto l’atmosfera complessiva.
There’s no such thing as good torna a utilizzare la chitarra in maniera più centrale, mentre le sensazioni prodotte da An Absence of Hope sono più variegate e più sottilmente malinconiche in principio, salvo poi riscattarsi in un secondo momento.
False Optimism confuta già in partenza ciò che stavamo per scrivere, cioè che il discorso qui si rasserena. La linea melodica può richiamare il rock anni Novanta (persino qualcosa di lontano degli Smashing Pumpkins) e il suono si fa più massiccio con l’andare delle battute.
A chiudere un album comunque ambizioso è un’altra suite, …Lest be judged, stavolta da sette minuti e venti, dall’incedere solenne, in cui si ripresentano motivi orchestrali.
Un tempo i Nanaki erano un sestetto, mentre oggi sono tornati a essere l’espressione delle sensibilità di un uomo solo, Mikie Daugherty. Non possiamo ovviamente dire come sarebbe stato questo disco in un’esperienza “full band”.
Ma si può dire che le evoluzioni che i brani attraversano aprono uno squarcio molto interessante sulle suddette sensibilità individuali, che trovano espressioni sonore di ottimo rilievo.
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