Più che l’omonimo filosofo francese del Settecento, leggendo il nome “Club Voltaire” i diversamente giovanissimi tipo me pensano ai Cabaret Voltaire, gruppo inglese degli anni Settanta/Ottanta che prendeva il nome dal luogo di nascita del dadaismo e che mescolò elettronica e psichedelia finendo per anticipare l’industrial.
Tutto ok fin qui? Ecco, i Club Voltaire con tutto questo hanno poco a che fare, nome a parte: anche loro infatti prendono il nome dal Cabaret Voltaire, il locale di Zurigo dove nacque il dadaismo, ma il loro genere ha poco a che spartire con industrial e psichedelia, anzi è molto più collegato con un indie rock spesso diretto e potente, a volte invece più articolato e nostalgico. Insomma, al povero Voltaire non c’è verso che ci pensi veramente qualcuno.
Il loro disco d’esordio, preceduto da un paio di ep compilati nel corso degli anni, è The Escape Theory ed esce giusto oggi: undici brani molto vivi, che suonano perfettamente contemporanei.
Dopo la breve introduzione di Rising Start, ci si tuffa nelle veloci evoluzioni di Kingdom Fall, che presenta uno schema classico di strofe e ritornelli e che punta sull’accelerazione per entrare di corsa nel pop internazionale.
There is no Sound è il primo singolo: la chitarra fa un discreto sfoggio di sé ma senza esagerare, il passo è sostenuto, il pezzo è azzeccato pur senza essere un capolavoro senza tempo.
Si passa a Don’t, sempre su ritmi medio-alti e con disegni di chitarra piuttosto evidenti, ma qui è l’intensità della batteria a fornire un abito confortevole al pezzo.
Pieces of Beach chiarisce i legami della band con l’epoca Beatles-Beach Boys-Kinks e via discorrendo: in effetti dichiarano un amore per i Sixties della British Invasion che però nel disco, fin qui, si era intuito soltanto da lontano, mentre qui è chiaro e dichiarato.
A proposito di omaggi: chiamare un pezzo Weller vuol dire qualcosa, soprattutto se si mettono insieme caratteristiche che lo avvicinano alla produzione dell’omonimo Modfather. Il pezzo è piuttosto ricco di influenze ed è molto interessante, anche se meno diretto di altri brani del disco.
Back in Time esplora un mondo acustico reso piuttosto beatlesiano dai cori. Rendez-Vous si muove su tematiche simili, con un clarino che pesca ancora più lontano nel tempo.
Friday 3AM persiste sull’acustico, mentre con Midnight Chance si assiste a un ingresso di qualche effetto elettronico più fantasioso, in un pezzo che può ricordare qualcosa degli XTC, a parte il coretto finale. Chiude Words don’t cover, che apre solo voce e piano, facendo poi posto alla chitarra acustica.
Può ingannare, “The Escape Theory”, se si prendono a parametro i primi pezzi del disco: non è tutto indie rock quello che luccica. Soprattutto nella seconda parte il disco acquista qualche colore e qualche sfumatura ulteriore.
Nel complesso ne esce un disco gradevole e ben fatto, ricco di influenze, magari non dadaista, ma non privo di freschezza.