L’Avversario, “Sangue Sangue”: la recensione
Di Greta Abruzzese
L’Avversario ci pone nuovamente di fronte a noi stessi e al nostro essere insignificanti con il suo secondo lavoro in studio, Sangue Sangue. Un’eterna sfida quella che Andrea Manenti ci lancia, mettendoci prima, nel precedente album, di fronte allo specchio, e ora facendoci soffermare sulla nostra sostanza organica, sospesa nel tempo e nel buio.
Questo nuovo lavoro è una spirale verso gli abissi della contemporaneità che avanza come un’onda scura, come la dark wave che dà il suono a questo nuovo lavoro. Un ascolto non facile e non banale, che non può essere di sottofondo, ma nel quale bisogna perdersi, a costo di rischiare di sprofondare. Un album che evoca i club underground, strade desolate e anime nere e dannate che, aggrappate al burrone, non sanno se mollare la presa o tirarsi su e salvarsi da se stesse.
L’Avversario traccia per traccia
L’album inizia con la title track, Sangue Sangue, che ci immerge immediatamente nella contemporaneità e nello stile dell’opera. Il primo verso è, infatti, “il mio commercialista non ci crede più”, rappresentazione precisa della normalità nichilista dei nostri tempi, concetto accentuato dallo svuotamento di personalità della voce, distorta dall’auto-tune che la fa diventare quasi robotica. La sensazione è quella di inoltrarsi, a passo lento, in un labirinto di vene, di strade, ad occhi chiusi. I richiami strumentali ai Joy Division ci sono, ma si deraglia poi verso un crescendo che trasporta in un grande trip.
Il brano successivo, Cranio, mantiene questi richiami, iniziando con un pianoforte pieno di dissonanze, supportato poi da una batteria sempre uguale a se stessa solo all’apparenza. La dinamica cresce nel ritornello, ma il testo disturba (“il cranio che hai è bello lo sai?”), creando nell’ascoltatore disagio. La coda mantiene alti i toni, con delle buone prove strumentali perfettamente in stile, arricchite da un pianoforte che spinge di accordi più appartenenti al jazz.
La città sta male inizia con una serie di domande disorientanti. L’influenza jazz viene mantenuta, in una prova di composizione molto interessante. Brano perfetto per una guida notturna, in una città desolata.
Si prosegue in maniera più ritmica con La Nebbia, con un’illusoria positività che si trasforma in ansia. “Io non mi sento molto bene, non si può per caso rimandare?”. L’effetto della nebbia cantata è quella dell’isolamento, della cecità, e di nuovo lo smarrimento, l’illusoria sensazione di movimento, quando in realtà si rimane fermi. La lunga coda, col finale distorto, è una lenta discesa agli inferi.
L’ultimo brano, Non Voglio Più Niente, è forse quello che preferisco, la perfetta chiusura di questo percorso nelle viscere della banalità umana, accompagnata dal dialogo malinconico fra pianoforte e chitarra. Testo composto da 9 righe totali, di cui solo due non contengono negazioni, ma che comunque evocano visivamente un malessere viscerale (“quelle lame che hai nello stomaco”). In questa ultima esaltazione del nichilismo, anche la voce è meno distorta, come se si fosse rassegnata all’immutabile stato delle cose.
L’Avversario riesce a inserirsi in un filone di musica nera in maniera precisa, con una poetica piena di citazioni ed estremamente visiva e fisica, capace di dare forma reale al malessere. La scelta della distorsione e disumanizzazione della voce è coerente con l’obiettivo dell’album, ma lo rende di più difficile fruibilità.
Complessivamente un buon lavoro che, nonostante non porti novità al suo genere di appartenenza, urla al mondo musicale della sua esistenza, fondamentale. Un ascolto consigliato ai decadenti moderni e alle anime tormentate che hanno trovato un proprio equilibrio in questo labirinto sanguinoso e macchinoso che è la contemporaneità.