Esce Voodoo we do, il nuovo album della band Little Pony, fuori per Soundinside Records e in distribuzione Believe Digital. Band mista tra Italia e America, ma nata per le strade di Napoli, ha un sound molto personale, frutto di una ricerca sonora fuori da ogni schema, che deriva da influenze che spaziano tra funk, R&B, psichedelia anni ’60, rap, spoken word, worldmusic e pop. Nascono come trio nel 2014 con Ryan Spring Dooley, sax e voce, Marco Guerriero, basso e Fulvio Laudiero alla batteria, ma la line up varierà più volte nel corso del tempo per assecondare le nuove esigenze sonore.
Dal comunicato stampa leggiamo: “Canzoni scritte in viaggio, riflessioni sulle ossessioni della modernità e le stregonerie da social… Un rito magico, potente come solo i bambini possono immaginare, per scacciare via il superfluo, il compulsivo, l’ostinata arroganza dell’omologazione coatta delle interazioni nelle piccole e grandi cose del quotidiano. I Little Pony non fanno jazz, non fanno rock, non fanno hip hop né punk o spoken words su basi funk disco rap; i Little Pony sono fuori moda e fuori dal tempo. Il disagio ha un suono ironico, cupo e rabbioso mentre balla: i Little Pony fanno Voodoo“.
Little Pony traccia per traccia
Un giro insistito quello che apre CPC, brano d’inizio dell’album che mette subito sulle piste di un blues piuttosto sporco di modernità.
C’è un che di urban all’interno di Miles, quasi rappata, un po’ recitata e anche trascinata su un altro giro che rimane in testa, con una tromba un po’ orientale che si fa vedere dalle retrovie.
Arriva poi la title track, Voodoo We Do, disinvolta e quasi sbarazzina con dinamiche che ricordano un po’ lo stile di Beck, ma anche con molta mescolanza evidentemente fabbricata in casa.
Si rientra in canoni più tranquilli con Saturday, che ha passo lento e anche piuttosto sensuale, su un giro blues profondo. Si torna a idee sostanzialmente hip hop con una fittissima Low Fi, appoggiata però da movimenti rock blues molto consistenti.
Fall Down è molto più esplicita nel riversarsi in forze in campo rap, con un po’ di scratch, qualche sirena di sottofondo e un atteggiamento piuttosto aggressivo. Aggressività che si riversa su Wood, almeno per le prime battute, visto che poi il finale è molto più tranquillo.
Si slappa un po’ a New York, altro brano ricco di contrasti e vitalità decisamente emergente, con un curioso inciso cantato in italiano. Sempre molto densa di cantato/rappato Badman, che segue linee piuttosto omogenee con il resto del disco.
Rawks riprende fiato e velocità, per un pezzo che sa di acido e che corre veloce per tutto il proprio percorso. Curioso intervento parlato quello di Sciamano, che racconta di incantesimi puzzolenti e strani.
Il finale è una lunga e psichedelica discesa agli inferi con Vix, che supera i sette minuti tra cori, effetti speciali, ampie volute di fumo e un senso di oscurità dominante.
Un po’ troppo lungo, per i canoni attuali, il disco dei Little Pony, visto anche qualche ripetizione di troppo. Però oggettivamente la band porta con sé indizi di grandissima vitalità e creatività, lasciando fluire una cascata di suoni e di idee che generano un disco ricco e molto intenso.
Genere musicale: alternative
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